Influenza e mortalità
Con il temine “influenza” vengono etichettate epidemie virali, che, da tempo immemorabile, nascendo prevalentemente in Cina e veicolati da uccelli migratori, si diffondono ogni anno in tutto il mondo. Alcune di queste hanno determinato gravi conseguenze come la cosiddetta “Influenza spagnola” del 1918-19 o l’”Influenza asiatica” del 1957-58; nonostante ciò oggi il termine “influenza” è generalmente ritenuto sinonimo di una banale infezione da affrontare con qualche giornata a letto.
Ma quante sono le persone che, in Italia, ogni anno in Italia, si porta via questa “banale infezione”? Una autorevole risposta è riportata qui ma, prima di addentarci in questa questione, una precisazione.
Mediamente, in Italia muoiono 600 mila persone l’anno; e cioè 50 mila al mese, 1666 al giorno. Le cause della mortalità sono calcolate dall’ISTAT che, al quattordicesimo posto segnala “polmonite e influenza”: mediamente 9.000 morti all’anno. Ovviamente, non tutte le polmoniti dipendono dall’influenza, anche se generalmente, le influenze ad esito infausto sono caratterizzate da polmoniti. Ci soccorre a tal riguardo l’Istituto superiore di Sanità che in questa sua pubblicazione così inequivocabilmente afferma: “…Per questo motivo diversi studi pubblicati utilizzano differenti metodi statistici per la stima della mortalità per influenza e per le sue complicanze. È grazie a queste metodologie che si arriva ad attribuire mediamente 8000 decessi per influenza e le sue complicanze ogni anno in Italia.”
Giustamente, l’Istituto superiore di Sanità parla di “influenza e sue complicanze”, non già di sola influenza. Se, infatti, si volessero conteggiare solo le morti in soggetti infettati dal virus dell’influenza ma non stremati da patologie pregresse o dalle ingiurie della vecchiaia, si avrebbero avute cifre molto più contenute. La questione della esatta causa di morte (si pensi ad esempio ai “50.000 morti ogni anno in Italia per infezioni ospedaliere”) si è rivelata drammatica durante l’emergenza Coronavirus, come approfondiremo in seguito.
L’emergenza Coronavirus
La dissennata gestione dell’emergenza Coronavirus nel nostro Paese nasce, sostanzialmente, per motivi politici e dallo scimmiottamento da parte delle autorità, soprattutto italiane, delle iniziative messe in atto dal governo di Pechino.
Queste iniziative scaturiscono per rispondere alla ennesima campagna mediatica sul “virus cinese”, nata negli USA nell’autunno 2019, per supportare i dazi e le sanzioni alla Cina annunciate da Trump e finalizzati a fermare lo strutturarsi della Nuova Via della Seta. Del resto, in Occidente, le campagne mediatiche su minacce biologiche provenienti dalla Cina non erano una novità. Basti pensare alla SARS del 2002 che, nonostante un bilancio in vittime davvero modesto è ancora oggi sinonimo di ecatombe o alla famigerata H1N1 del 2009, (meglio nota come “influenza suina”) scandalosamente subito proclamata “Pandemia” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Solitamente le autorità cinesi rispondevano a queste campagne mediatiche – spesso basate sull’”innata” sporcizia dei Cinesi – limitandosi a rinfacciare all’Occidente le sue disgrazie (come l’epidemia influenzale sviluppatasi negli USA nel 2017 che si porto via, in tre mesi, 80.000 americani). Per il Coronavirus la risposta è stata, invece, completamente diversa. Una gigantesca mobilitazione sanitaria fatta davanti alle TV di tutto il mondo (basti pensare ai tre ospedali da 1.000 posti letto costruiti in appena dieci giorni) e, soprattutto, l’imposizione di una quarantena (50 milioni di persone isolate e pienamente assistite) nell’Ubei-Wuhan, principale distretto manifatturiero dove attingono le aziende occidentali.
Un blocco della produzione che, certamente, ha rallentato la prodigiosa crescita del PIL cinese ma che, se continuava, avrebbe scompaginato l’economia dei paesi occidentali. Circostanza questa che, ad esempio, ha indotto, il governo USA e i suoi media a ridimensionare “l’allarme Coronavirus” fino al punto di rifiutare i tamponi diagnostici messi a disposizione dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e a mettere il bavaglio a ricercatori statunitensi che paventavano una catastrofica epidemia da Coronavirus.
Oggi la Cina da quella gigantesca mobilitazione ne è uscita trionfante ma, purtroppo, le sue straordinarie misure “profilattiche” (in realtà, prevalentemente politiche) hanno finito per legittimare in Occidente la percezione che, il Coronavirus rappresentava una minaccia biologica di estrema gravità. E il Paese che più ne ha fatto le spese è stato il nostro.
Il caso italiano
L’Italia si è trovata ad affrontare “l’emergenza Coronavirus” con un governo debole e con il settore Sanità in mano alle Regioni, dominate, soprattutto nel Nord, da una opposizione che già scalpitava per una sostanziale secessione. A peggiorare la gestione dell’emergenza altri fattori. Ad esempio, l’esigenza del Governo di farsi perdonare dagli USA la sua precedente adesione (unico paese europeo) alla Nuova Via della Seta; circostanza che potrebbe spiegare, all’inizio dell’emergenza, la decisione (solo italiana) di vietare i voli Italia-Cina, che segue di pochi giorni la altrettanto insensata decisione di permettere ai bambini cinesi, appena tornati dalle loro vacanze in patria, di rientrare senza alcun controllo sanitario nelle loro classi.
Ma a fare precipitare la situazione in Italia c’è stata – a parere non solo di chi scrive – l’esigenza, da parte di forze politiche e imprenditoriali, di enfatizzare la minaccia rappresentata dal Coronavirus per suggerire che senza gli aiuti dell’Unione Europea il nostro Paese non avrebbe potuto farcela. Bisognava, quindi affrettarsi a firmare il nuovo Trattato MES (l’Italia era stato l’unico paese dell’Eurogruppo a non firmarlo) nonostante che nessuna delle proposte di modifica avanzate a dicembre dal governo italiano fosse stata accettata dall’Unione Europea. Al momento, l’accettazione italiana al nuovo MES è stata rinviata; non così la stipula di accordi con la BCE e il FMI per ottenere aiuti che prefigurano il cappio offerto alla Grecia.
A proposito della enfatizzazione della minaccia Coronavirus,è necessaria una precisazione. Chi scrive non ritiene che dietro la campagna ansiogena condotta dai media italiani (in particolare dalla RAI, azienda di Servizio pubblico) ci sia stata una tenebrosa regia (per intenderci tipo quella raffigurata nel film “007: Il domani non muore mai”). Come già detto, in alcuni casi, le epidemie sono serviti a governi o aziende farmaceutiche, assoldate agenzie di stampa, a enfatizzare la minaccia; ma quello che si è verificato nell’informazione Coronavirus in Italia verosimilmente ha altre spiegazioni. E cioè l’incapacità da parte di un governo, debole e dilaniato da contraddittorie esigenze, di imbrigliare quella che si direbbe essere la principale esigenza degli attuali operatori dell’informazione e cioè arraffare audience. E visto che questo può essere garantito, con minimo sforzo, dalla Paura, è stata questa a dettare tutta l’informazione in Italia; una situazione che ha emarginato progressivamente dichiarazioni “tranquillizzanti”, espresse da pur autorevoli ricercatori e dato uno spazio spropositato a personaggi solo alla ricerca di pubblicità trascinando così nel panico l’intera popolazione.
Questo ha prodotto una situazione simile, anche se molto più grave, a quelle di tante altre psicosi di massa (che – occupandomi per quarant’anni di protezione civile – mi è capitato di studiare) e cioè la percezione di quello che sta accadendo che viene determinata SOLO dall’osservazione del comportamento degli altri. Un Gioco di Specchi oggi enormemente amplificato dai media interessati, come già detto, a raccattare audience attraverso la Paura. A tal riguardo è forse interessante riflettere sull’escalation che ha portato alla situazione di oggi dando una occhiata a come la RAI erogava l’informazione nel 1968 durante ”l’influenza di Hong Kong” del 1968 (in Italia 20.000 morti per concause) confrontandola con l’arroganza di un giornalista RAI, nel 2002, nei riguardi del Direttore generale della sua azienda “colpevole” di suggerirgli un atteggiamento più responsabile a proposito di quella che si è dimostrata essere una fake diffusa per motivi commerciali: l’epidemia della “Mucca Pazza”.
Tra l’altro, il dilagare di una informazione ansiogena è stato favorito anche dalla sua capacità di irregimentare la popolazione e, quindi – come in passato le guerre – garantire il suo prono asservimento al Potere. Questo, tra l’altro, ha determinato il proliferare di capetti politici che, trasformatisi in sceriffi, sull’onda della paura e scovando sempre nuovi “untori”, si sono garantiti con il Coronavirus un’aura di popolarità.
Come già detto, a concorrere alla dissennata gestione dell’emergenza Coronavirus è stato un ordinamento nazionale che assegna alle Regioni poteri, praticamente, sovrani nel settore della Sanità. E così mentre il governo italiano, non faceva sostanzialmente nulla (nemmeno l’approvvigionamento straordinario di dispositivi di protezione individuale o di apparecchiature medicali, come facevano quasi tutti i governi europei) già all’inizio dell’epidemia le Regioni (soprattutto quelle del Nord) – senza alcun coordinamento nazionale e senza nessuno standard da rispettare – effettuavano innumerevoli test con tamponi diagnostici applicati su persone “a rischio” (e cioè che manifestavano sintomi ascrivibili all’influenza o che dichiaravano di avere auto contatti con potenziali infettati).
E qui si rende necessario un inciso.
L’affrontamento delle emergenze epidemiche può basarsi su differenti strategie. Per il Coronavirus, oggi, in Gran Bretagna, ad esempio, si è orientati a lasciar “sfogare l’epidemia” non ponendo quasi nessuna restrizione agli affollamenti (nella speranza che ciò determini negli infettati una rapida immunizzazione) e, contemporaneamente, mettendo in quarantena persone ad elevato rischio, come, ad esempio, gli anziani. In altri paesi, invece, la strategia è quella di rallentare (con l’imposizione di restrizioni alla mobilità della popolazione) l’avanzata del contagio per ridurre l’entità del picco epidemico, “spalmandolo” in un periodo il più lungo possibile; e ciò per evitare il collasso del sistema sanitario conseguente all’insostenibile numero elevato di contemporanei ricoveri. Un’altra strategia è stata messa in Cina dove, come già detto, si è attuato un cordone che ha messo in quarantena cinquanta milioni di persone applicando, all’esterno di questo misure, peraltro abbastanza blande, di profilassi.
Va da sé che qualsiasi strategia finalizzata ad affrontare una epidemia deve essere scelta analizzando precisi dati; tra questi, fondamentale è la stima attendibile dei non contagiati, dei contagiati e delle persone che questi potrebbero infettare. Stima che, in Cina e nella Corea del Sud, viene migliorata tracciando lo spostamento di queste persone tramite il GPS del loro cellulare. In Italia, invece, il guazzabuglio di dati raccolti dalle Regioni impedisce di definire una adeguata strategia; ciò rischia di riproporre (qualora l’avanzata del contagio sia più lenta di quanto ipotizzato) il riproporsi dell’epidemia quando l’attuale isolamento domiciliare di tutta la popolazione (insostenibile per più di qualche settimana) sarà abolito.
Ma la cosa più penosa della faccenda è che i dati dei “contagiati” (raccolti a casaccio dalle Regioni e che, quindi non permettono di essere l’indice di alcunché) rivestono ufficialità nella comunicazione istituzionale del Governo e della Protezione civile che li affianca al numero dei “deceduti”.
La questione “morti per Coronavirus” invece che “morti con Coronavirus” (e cioè se questo virus sia la causa principale della morte o se sia presente nell’organismo di persone sul procinto, comunque, di morire per altre patologie o per vecchiaia), è stata oggetto di innumerevoli e, spesso anche violente, polemiche, che, comunque non impediscono alla Protezione civile di continuare a divulgare il numero di non meglio specificati “Deceduti” seguito dalla farisaica dicitura “in attesa di conferma Istituto Superiore di Sanità”.
In realtà già il 13 marzo il direttore dell’Istituto superiore della sanità annunciava che solo per due persone, tra le tante ascritte come “morte per Coronavirus”, si poteva – per l’assenza di gravi patologie pregresse e per l’età – confermare questa diagnosi. Il 17 marzo un verdetto ancora più inequivocabile: su 355 cartelle cliniche esaminate, solo 12 decessi possono essere ascritti come “morti per Coronavirus”. Una percentuale, quindi del 3,4% che se proiettata sul numero complessivo dei “decessi” (2503) comunicato dalla Protezione civile qualche giorno fa, identificherebbe (3.4 % di 2.503) solo in soli 85 di questi i morti per Coronavirus. Ma l’esatto numero dei morti, per valutare la letalità del virus dovrebbe essere commisurato con la stima del numero degli infettati tra la popolazione. Dato che, certamente non può essere ricavato da quel “totale positivi” che troneggia ogni sera alle 18 sulle TV e che è stato ricavato da tamponi effettuati finora esclusivamente tra persone a rischio. Da questo guazzabuglio ne viene fuori uno sbalorditivo, quanto farlocco, 6,6% tasso di letalità del Coronavirus nel nostro Paese Un altro “primato italiano” considerando che lo studio più affidabile stima il tasso di letalità del Coronavirus intorno allo 0,1%.
Il caso Lombardia
Un caso a sé è poi costituito dall’andamento dell’emergenza in Lombardia, regione nota per il migliore Sistema sanitario d’Italia; sistema, comunque, già falcidiato dal progressivo taglio dei posti di rianimazione e che, nel gennaio 2018 aveva determinato, proprio in Lombardia, un abnorme sovraffollamento dei reparti di rianimazione).
In Italia, il primo tampone positivo risale al 20 febbraio all’ospedale di Codogno (cittadina di circa 15mila abitanti in provincia di Lodi). Fino ad allora, nonostante l’ansia crescente disseminata dalla TV sul Coronavirus in Cina, l’unica iniziativa per affrontare una eventuale emergenza nel nostro Paese – al di là della confusa effettuazione di tamponi da parte delle regioni – si direbbe essere stata la campagna #MILANONONSIFERMA (estesa poi a molte città italiane” riportante “Consigli per trascorrere le giornate nonostante il Coronavirus” quali: “fare colazione fuori, approfittare dei saldi, andare dal parrucchiere, prendere un aperitivo al bar, uscire a cena…”.
La scoperta dell’”infettato di Codogno” sospese immediatamente questo approccio edonistico per affrontare l’epidemia imponendo la cosiddetta “linea dura”: isolare completamente il paese con un cordone sanitario, costringendo tutti i suoi abitanti a stare a casa e a sottoporsi a tampone. Certamente questa “linea dura” ha ridotto la diffusione del contagio a Codogno, ma l’identificazione, lì, nonostante queste misure, di 170 contagiati avrebbe dovuto suggerire che il Coronavirus – evidentemente già diffusosi in tutt’Italia – avrebbe dovuto essere affrontato con misure ben diverse da quelle della “linea dura”. È stata, invece, proprio questa la strategia adottata: screening generalizzato – tramite tamponi – per tutti i soggetti “a rischio”, confinamento nelle abitazioni per tutta la popolazione e ospedalizzazione per i positivi a Coronavirus affetti da problemi respiratori.
Su questa ultima misura è opportuno aprire un inciso.
Al pari della “normale” influenza, il Coronavirus può provocare più o meno gravi infezioni delle vie respiratorie tra cui la polmonite interstiziale acuta che, generalmente, determina la morte se non viene affrontata, nei reparti di terapia intensiva, con la ventilazione meccanica, (garantita da ventilatori polmonari, che permette al paziente di respirare nella lunga attesa che l’infezione si plachi).
In passato, anche pazienti per i quali poteva verosimilmente insorgere una polmonite interstiziale acuta non venivano necessariamente trasportati preventivamente nei reparti di terapia intensiva ma ricevevano assistenza medica domiciliare; è da evidenziare che uno dei più completi studi a riguardo attesta come, anche nei suddetti casi, l’assistenza medica domiciliare determini percentuali di sopravvivenza molto più alte del ricovero ospedaliero e questo, soprattutto, considerando l’impatto delle infezioni ospedaliere.
Si direbbe abbia ignorato questa e altre considerazioni l’indicazione governativa che sconsiglia al medico curante di recarsi a casa del proprio paziente affetto da Coronavirus dovendo egli limitarsi a “consultarlo” telefonicamente prima di compilare un davvero scarno questionario (corredato da sorprendenti istruzioni: si veda la voce “valutazione clinica”) da inviare al 118. Questa deresponsabilizzante procedura, unita al panico generale e alla velleitaria pretesa di una generale ospedalizzazione del Coronavirus ha determinato ben presto il trasporto nelle strutture ospedaliere di un numero spropositato di affetti da Coronavirus; in questo caotico sovraffollamento, certamente, un peso di rilievo lo hanno avuto le infezioni ospedaliere (che già si portano via 50.000 persone all’anno in Italia). Il risultato è stato una impennata di mortalità e scene da lazzaretto medioevale, diventate “piatto forte” nelle trasmissioni della RAI e di tanti altri media.
*Francesco Santoianni è membro del Comitato Popolare Territoriale di Napoli