Sulle misure di contenimento contro la diffusione del corona virus si è scritto molto, ma è forse il caso di soffermarsi sulla situazione in cui versava la sanità italiana nel momento in cui è scattato lo stato d’emergenza e domandarsi se il gravissimo vulnus inferto alla libertà dei cittadini era davvero inevitabile.
In questi mesi, si è acceso il dibattito tra sostenitori dell’eccezionalità del pericolo pandemico e fautori della necessità di declassare il fenomeno a forma influenzale connotata da particolare virulenza. Analizzando i dati ufficiali del Ministero della Salute, dobbiamo concludere che l’allarme era pienamente giustificato dall’impegno straordinario delle strutture sanitarie che il contagio da covid ha comportato.
Più che sul dato della mortalità, il dato abnorme è rappresentato dal numero dei casi che hanno richiesto il trattamento in terapia intensiva. Il grafico sottostante riporta il numero di decessi e accessi in terapia intensiva causato da vari ceppi influenzali che hanno colpito il paese dal 2009 al 2019. Se sui decessi, ancora si dispone di studi parziali relativi a comorbilità e complicanze pregresse, sull’impiego delle terapie intensive non ci sono dubbi. A fronte di un utilizzo che generalmente è ampiamente inferiore ai 1000 posti letto, al 31 marzo il corona virus ha portato al ricovero in terapia intensiva per complicazioni polmonari 4023 persone.
Le misure di contenimento, nei focolai dell’epidemia, sono state tardive. Già a dicembre, Piacenza registrava 40 polmoniti a settimana; nel mese di gennaio, dal San Paolo di Milano si segnalavano da 50 a 80 polmoniti in più rispetto alla media stagionale, dal Niguarda 70, a Como gli ospedali risultavano intasati per casi di polmoniti atipiche.
E’ il caso di ricordare che tra gennaio e marzo l’azione del governo è stata schizofrenica: prima si è gridato all’allarme, poi si è minimizzato, con l’immagine emblematica di Zingaretti che invitava la gente in piazza e promuoveva il rito dell’aperitivo serale; poi si è instaurata un’autentica situazione di panico collettivo a cui è seguito il lockdown drastico, inflitto a tutta l’Italia, prescindendo da qualsiasi analisi condotta sulle specificità dei territori. Ad oggi sappiamo che la diffusione del virus ha avuto un variabilità molto ampia tra regione e regione, le cui cause necessiteranno un ulteriore approfondimento nei prossimi mesi.
La ragione principale che ha indotto misure draconiane su tutto il paese è principalmente una: la consapevolezza dei nostri politici circa la totale inadeguatezza strutturale della sanità italiana rispetto alla gestione di un’emergenza epidemica.
I posti letto di terapia intensiva prima dell’inizio della pandemia si attestavano a 5179, cioè 8,58 ogni 100.000 abitanti; nel 2012, prima della disastrosa spending review (D.L. 95/2012), ammontavano a 12,5. Per avere un termine di raffronto si tenga presente che all’inizio del 2020, la Germania disponeva di 29 posti letto ogni 100.000 abitanti, l’Austria 22, 16 il Belgio.
La contrazione dei posti letto è andata di pari passo col definanziamento della sanità pubblica. Uno dei motivi che ha portato al drastico distanziamento sociale è costituito dalla riduzione degli operatori sanitari nel settore pubblico, che ha riguardato in maniera specifica anche biologi e tecnici di laboratorio e che ha reso impossibile procedere ad una mappatura capillare della diffusione del contagio.
Al netto della difficoltà di reperire sul mercato i reagenti necessari all’analisi dei tamponi, si pensi che in Germania si è proceduto nei mesi di marzo ed aprile all’effettuazione di una media di 500.000 tamponi a settimana, contro i 250.000 italiani, raggiunti nel periodo di picco epidemico. Nonostante il nostro paese abbia saputo mostrare una buona capacità di risposta, collocandosi ad oggi al terzo posto in Europa nell’effettuazione di tamponi rinofaringei, non c’è dubbio che ha pagato lo scotto di un costante processo di contrazione di risorse, iniziato negli anni ’90 e proseguito nel corso di tutto l’ultimo decennio.
Nel corso degli ultimi 10 anni, abbiamo perso circa 8.000 medici e 13.000 infermieri. L’Italia, con suoi 5,8 infermieri per mille abitanti, si piazza al di sotto della media U.E. ed è superata da quasi tutti i paesi della zona euro.
Il definanziamento della sanità è stato costante nell’ultimo decennio e il fondo sanitario nazionale, pur registrando un aumento in valore assoluto (con le sole eccezioni delle finanziarie del governo Letta nel 2013 e Renzi nel 2015)), ha visto diminuire costantemente il proprio peso percentuale rispetto al Pil, passando dal 7% nel 2009 al 6,6% del 2019. L’Italia, a partire dal 2010 ha subito un brusco arresto nel trend di crescita della spesa sanitaria pro capite (comprensiva anche di quella privata).
Uno studio del 2016 di Pierluigi Russo, Tommaso Staniscia e Ferdinando Romano mostra, nel grafico riportato di seguito, quale avrebbe dovuto essere la spesa sanitaria pro capite dal 2009 in poi se avesse seguito il trend del decennio precedente, a raffronto con i valori reali evidenziati in blu.
Nel corso dell’ultimo decennio tutti i governi hanno tagliato significativamente gli stanziamenti già programmati. Uno studio condotto dalla rivista GIMBE calcola in 37 miliardi il valore complessivo delle riduzioni operate rispetto alle risorse inizialmente previste dai bilanci previsionali e dai Patti della Salute.
Nei grafici successivi, tratti dal servizio di Domenico Affinito (Corriere della Sera), si riportano i grafici relativi all’andamento del finanziamento pubblico della spesa sanitaria dal 2010 ad oggi e i tagli che ciascuno dei governi ha operato rispetto agli stanziamenti programmati.
Il primo grafico è relativo all’andamento in valore assoluto del fondo sanitario nazionale, il secondo alla diminuzione di risorse ad opera delle leggi finanziarie o altre misure di adeguamento, richieste dai programmi di rientro sul debito imposti dall’adesione ai trattati europei e pedissequamente attuate dai nostri politici.
Come si vede, tutti indistintamente si sono adeguati al pilota automatico imposto dagli eurocrati della finanza. Tra i maggiori sforbiciatori compaiono Letta e Renzi, seguiti a stretta distanza da Gentiloni e Monti; neppure Conte ha saputo invertire la tendenza.
Torniamo ora all’interrogativo da cui eravamo partiti: con una sanità migliore avremmo potuto reagire meglio al covid rispetto a quanto è stato fatto? Di sicuro gli ospedali non sarebbero stati immediatamente saturati; molto probabilmente non avremmo dovuto rimandare di mesi le attività sanitarie ordinarie per concentrare tutte le risorse sull’emergenza; forse non saremmo stati costretti a chiudere le attività economiche e a sospendere la democrazia anche nelle regioni con basso numero di contagi. E non avremmo dovuto sovraccaricare gli operatori sanitari, già fiaccati da anni di tagli indiscriminati, per poi cadere nell’ipocrisia di chiamarli angeli.
In realtà, oggi sarebbe doveroso da parte di tutti coloro che si sono si sono resi artefici della devastazione della macchina pubblica, in nome di un’ideologia ispirata al più bieco darwinismo sociale, fare un atto di contrizione e ammettere le proprie colpe. Ma ancora non si sono udite scuse.
*Luca Dinelli è membro del Comitato Popolare territoriale di Lucca
Ottimo articolo.