Guardare al passato con nostalgia, addirittura con venerazione, appartiene alla forma mentis dell’essere umano. Non deve perciò stupire il ricorso ad una tale pratica nella pubblicistica politica, perché non fa che riflettere un meccanismo psichico della singola persona, e delle comunità. Rievocare uno stato di cose ormai sepolto dalle sabbie depositate dal tempo, serve a rassicurare, a placare gli animi, e possiede una funzione ancor più profonda: ci aiuta a dare una sorta di dimostrazione incontrovertibile, di prova tangibile che quel che desideriamo per il nostro futuro è credibile, e merita ogni nostro sforzo, ogni nostro sacrificio, perché è già avvenuto, e dunque potrà tornare a verificarsi. Ciò significa poter mettere a tacere con sicurezza i tiepidi, gli scettici, gli eterni dubbiosi. Significa poter indicare ai propri discepoli, o militanti, una via che, sebbene irta di pericoli, è la strada conosciuta, quella del ritorno a casa.
Questo tema è stato trattato dal critico della letteratura sovietico Michail Bachtin, nel suo testo Estetica e romanzo. Bachtin definiva questa tendenza a ricercare un senso nel passato come “inversione storica”. “L’essenza di questa inversione sta nel fatto che il pensiero mitologico e artistico localizza nel passato categorie come il fine, l’ideale, la giustizia, la perfezione, lo stato armonico dell’uomo e della società, ecc. I miti del paradiso, dell’età dell’oro, dell’età degli eroi, dell’antica giustizia, e le più tarde rappresentazioni dello stato di natura …. sono rappresentazioni di questa inversione storica”.
Per fornire di realtà un certo ideale lo si pensa come già attuato una volta nell’età dell’oro nello stato di natura … nelle corrispondenti costruzioni filosofiche, all’inversione storica corrisponde la proclamazione di principii come fonti cristalline e pure dell’essere e la proclamazione dei valori eterni, delle forme ideali e extratemporali dell’essere”.
Quest’ultima affermazione di Bachtin è particolarmente preziosa, perché indica nitidamente l’errore prospettico in cui rischia di incorrere chi propugna la causa patriottica in questo periodo storico.
I decenni della cosiddetta Prima Repubblica sono oggetto di una rivalutazione e di un apprezzamento che si rivelano pericolosi perché non si accompagnano ad una solida conoscenza del contesto storico. Questo è tanto più vero, se guardiamo agli attori di primo piano della politica italiana, di quel periodo storico. Non di rado, capita di veder tessere l’elogio di personaggi che, fino all’altro ieri, venivano bollati con infamia e relegati nelle segrete del nostro inconscio collettivo.
“Bettino Craxi l’aveva previsto: questa Unione Europea vi ridurrà in schiavitù”: alzi la mano chi non ha letto un post di questo tenore su Facebook o altro social network.
La radice di queste interpretazioni così contraddittorie, per non dire schizofreniche, sta in una certa rigidità manichea del modo di procedere di molte analisi di oggi. In altre parole, in molti ambienti fuori dal mainstream, peraltro ingiustamente scherniti come “complottisti”, si parte con il desiderio, sacrosanto, di scavare in profondità in certi avvenimenti storici, o contemporanei, e si giunge ad esempio a scoprire quel che sembrava una manifestazione spontanea, tanto spontanea non era, e anzi aveva ricevuto una spinta decisiva da qualcuno molto in alto, che aveva agito così per propri interessi non molto puliti. Ebbene, in questo passaggio si cela a nostro avviso l’errore, si sceglie di applicare nel mutato giudizio storiografico una logica da codice binario, ovvero quella che utilizzano i computer nella loro elaborazione. Zero oppure uno, uno oppure zero. Nessuna sfumatura, nessuna valutazione che tenga adeguatamente conto della complessità della realtà.
Come si applica questo ragionamento alla storia della Prima Repubblica? Il caso di mani Pulite è esemplare al riguardo. Le indagini che principiarono nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio di Milano durarono per diverso tempo, e di fatto, decapitarono buona parte della classe politica nostrana, in particolare quei quadri che, nei partiti di governo, avevano governato l’Italia a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. La Prima Repubblica, appunto, spazzata via in un amen, o meglio a colpi di monetine verso i politici inquisiti.
Ora, chiunque abbia avuto modo di vivere di persona quegli anni sa che la “questione morale” veniva spesso usata come argomento di conversazione nei salotti televisivi, ma non per questo si muoveva foglia nelle procure di tutta Italia. Alcune persone animate da passione civile (militanti politici, giornalisti fuori dal coro) denunciavano appalti truccati, tangenti e corruzioni varie, ma coloro che erano preposti a fare luce sceglievano, invariabilmente, di volgere lo sguardo altrove, verso la prossima partita a tennis, o verso il giorno della sospirata pensione.
Finché, all’improvviso, tutto cambiò. Si volle far credere alla pubblica opinione che da una piccola indagine in un ospizio si fosse giunti, per semplice accumulazione di dati, alle grandi indagini sulle aziende di Stato, alle tangenti a socialisti e democristiani.
Di fatto, vari gruppi del potere economico e politico internazionale considerarono ormai fastidioso il ruolo dei grandi partiti politici di massa, una zavorra di cui era meglio liberarsi al più presto, al fine di importare anche nel nostro paese un genere di democrazia formale e non più sostanziale. Sempre nel 1992, il 2 giugno per l’esattezza, varrà la pena ricordarlo, si decisero a bordo del panfilo Britannia, le sorti dell’economia italiana. Era presente il gotha dell’economia di Stato italiana, fra i quali il presidente di Bankitalia Ciampi, Beniamino Andreatta, oltre ai vertici delle aziende di Stato.
Ad aprire i lavori, l’allora direttore generale del Ministero del Tesoro, Mario Draghi. In quell’occasione i presenti sunnominati vennero istruiti a dovere da una nutrita schiera di banchieri anglo-americani, su quanto andasse fatto, ovvero privatizzare il comparto industriale pubblico del nostro paese.
Perché ricordiamo questi episodi? Il motivo è semplice: la nefasta china presa dalla politica italiana, a partire dal 1992 ha portato molti a rimpiangere i politici che fino a quello stesso anno detenevano le leve del potere.
Eppure occorre rifuggire da un’analisi così semplicistica, per diversi motivi. Prima di tutto, la cesura fra prima e seconda repubblica, a livello di classe dirigente, è molto meno netta di quanto appaia ad uno sguardo superficiale. Uomini che fino al 1992 avevano ricoperto ruoli relativamente più defilati, finirono per occupare più compiutamente il centro della scena politica, nel dopo-Tangentopoli. Ciampi ed Andreatta, citati poco fa, erano già in piena attività nel 1981, quando una semplice corrispondenza privata fra i due aprì un baratro, negli anni a venire, nel debito pubblico della nostra nazione.
Lo spiega bene Giulietto Chiesa nel suo volume E’ arrivata la bufera: “Basterebbe ricordare la lettera che l’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta inviò all’allora Governatore della Banca d’Italia Azeglio Ciampi in seguito (e non per caso) Presidente della Repubblica. Era il 12 febbraio 1981 e l’Italia veniva silenziosamente permutata in colonia anglosassone, facendole assorbire il nuovo principio americano dell’indipendenza della Banca Centrale da ogni controllo democratico. C’era ancora la lira, ma sull’onda del reaganismo e del thatcherismo anche l’Italia stabiliva che la Banca Centrale – che svolgeva la funzione di tesoreria del Ministero delle Finanze – venisse autonomizzata e cessasse la sua funzione principale di acquirente principale dei titoli di Stato. Da allora in avanti sarebbe stato il Mercato a decidere. E chi era il Mercato? Erano le grandi banche, che avrebbero comprato sì, e volentieri, i titoli pubblici, ma a tassi d’interesse sempre più alti. Si spiega così come il debito pubblico italiano sia potuto passare in soli dieci anni, dal 1980 al 1990, da 20 mila miliardi di lire a 127 mila miliardi di lire”.
In altre parole, i semi della contro-rivoluzione neo-liberista (la lotta di classe fatta dai ricchi contro i poveri) vennero gettati in Italia tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta. Sono gli anni immediatamente successivi al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro. Questo ci consente di concludere accennando alla figura di Moro, anch’essa estrapolata ai nostri giorni dal suo milieu politico e biografico per farne una sorta di martire nel quadro idilliaco dei bei tempi che furono.
Sarà utile sgombrare il campo da una serie di spiacevoli equivoci. Sappiamo molto bene che l’uccisione di Aldo Moro venne non solo tollerata, ma fortemente voluta da Stati Uniti e Gran Bretagna, e che dunque in questa vicenda le Brigate Rosse svolsero principalmente un ruolo, a propria insaputa, di utile manovalanza. Non traggano in inganno, le dichiarazioni sdegnate degli stessi brigatisti, che rivendicano una loro autonomia all’epoca dei fatti, sdegno che serve soltanto a mascherare la bruciante consapevolezza di essere stati manovrati come marionette.
A dimostrare le cruciali ingerenze straniere, vi sono numerose fonti, per chiunque voglia responsabilmente documentarsi: valgano ad esempio, le candide ammissioni al riguardo di Zbigniew Brzezinski, all’epoca dei fatti nel Consiglio di Sicurezza Nazionale dell’amministrazione di Jimmy Carter (NSA). Inoltre, vanno ricordati i preziosi volumi sull’argomento di Giovanni Fasanella. Il giornalista ha dimostrato come esistesse, negli anni ’60 e ’70, una cabina di regia, comprendente ministri e personale diplomatico di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania, avente l’obiettivo di ridimensionare, con ogni mezzo, il ruolo geopolitico sullo scacchiere internazionale dell’Italia. Da qui le decisioni di eliminare, prima, Enrico Mattei, e in seguito Aldo Moro.
Essere nel mirino di queste potenze significava, certamente, aver dato loro fastidio sotto molti aspetti. Ci permettiamo però di dubitare sulla effettiva volontà di Moro di dare corpo e vita ad un rapporto organico con l’allora Partito Comunista Italiano, la cosiddetta strategia del compromesso storico. Lo stesso Enrico Berlinguer, alcuni anni dopo la fine infruttuosa del lungo confronto con la Democrazia Cristiana, ammise, con grande onestà intellettuale, di aver compiuto un errore nell’intraprendere quel genere di percorso, che di fatto indebolì notevolmente il PCI, e che lo portò a smarrire quelle matrici politico-ideali che, almeno in parte, fino a quel momento lo avevano contraddistinto.
In altri termini, Aldo Moro, era sì un uomo di Stato, ma al tempo stesso un uomo dedito alla causa del proprio partito, un vero e proprio partito-Stato, la Democrazia Cristiana.
Può far sorridere, ma all’epoca il partito di governo per eccellenza, la Democrazia Cristiana, rappresentava l’incarnazione stessa del Potere, e in quanto tale i suoi dirigenti vedevano loro stessi come forniti di una speciale immunità, che li metteva al riparo dal giudizio popolare. Se questa affermazione può sembrare eccessiva, basterà ricordare quanto Moro dichiarò, nel Parlamento riunito in seduta comune, nel marzo del 1977. Si trattava di permettere o meno, di procedere a carico di alcuni politici di primo piano, accusati di aver ricevuto una tangente di 61 milioni di lire dagli amministratori della società americana Lochkeed affinché dessero parere favorevole all’acquisto, da parte del governo italiano, di 14 aerei Hercules 130.
Nel corso del dibattito, Aldo Moro pronunciò alcune frasi destinate a lasciare l’impronta di un preciso modo di intendere il rapporto tra il governo e i suoi cittadini: “La DC fa quadrato intorno ai propri uomini. Non ci lasceremo processare nelle piazze”.
Troppo spesso, lasciamo che i personaggi del passato assumano proporzioni e peculiarità a loro sconosciute quand’erano in vita. Meglio faremmo a ricercare e ricreare nel presente quel che di davvero positivo c’era in quei decenni passati, ad esempio la massiccia partecipazione popolare alla vita politica, alle grandi scelte di fondo della vita pubblica.
*Alberto Melotto è membro del Coordinamento nazionale di Liberiamo l’Italia