Non ce ne voglia l’ignaro e simpatico felino, ma l’immagine è perfetta. In Borsa il “rimbalzo del gatto morto” descrive la ripresa, modesta e temporanea, di un titolo destinato a ricominciare alla svelta la sua corsa verso il basso. Che è esattamente quello che sta facendo l’economia italiana, nel suo complesso, dal 2008.
Nella figura sopra questo fenomeno è evidentissimo. Il primo “rimbalzo del gatto morto” si registra nel 2010-2011, poi seguito da una nuova recessione e da una sostanziale stagnazione fino al 2015. Qui inizia la ripresina del 2016-2018, il secondo balzo del micio deceduto, che ci condurrà alla stagnazione del 2019, fino alla catastrofica situazione attuale. Quando il grafico dell’Istat riporterà il tracollo in corso, il disastroso andamento dell’economia italiana risulterà ancora più chiaro.
Ma perché iniziare un articolo sulle prospettive economiche attuali con queste considerazioni? Primo, perché il passato, specie se non si cambia strada, ci parla inevitabilmente del futuro. Secondo, perché la crisi del Covid è sopraggiunta quando l’economia italiana (e non solo) era già sull’orlo di una nuova recessione. Terzo, perché (come vedremo) tutte le previsioni economiche del momento indicano al massimo un nuovo rimbalzo del gatto morto. Quarto, perché gli effetti di lungo periodo dell’appartenenza all’eurozona solo questo consentono.
La figura riporta i valori trimestrali del Pil in euro 2015. I dati sono dunque destagionalizzati e depurati dall’inflazione. Il primo crollo del 2009 è del -7,5%. Il rimbalzo che segue non recupera neppure la metà di quanto perso, mentre la recessione successiva porta il picco negativo ad un -9,3% sul 2007. Ma il rimbalzo seguente, chiusosi nel 2018, si ferma addirittura ad un livello inferiore rispetto a quello del 2010-2011.
Tutto ciò ci serve ad impostare una corretta premessa al ragionamento sul futuro che ci attende. Se questo è stato l’andamento del Pil – e dunque dell’occupazione e del reddito degli italiani – negli ultimi 12 anni senza virus, cosa accadrà adesso con le conseguenze del Covid e soprattutto con quelle della sua folle gestione da parte del governo Conte?
“Ripresa” a V, a U, a L, o…?
E’ dall’inizio dell’epidemia che gli economisti di tutto il mondo si dilettano con un interrogativo: come usciremo dalla crisi del coronavirus? Avremo una curva a V (ripresa rapida dopo un’altrettanto rapida caduta), a U (ripresa equivalente alla caduta, ma solo dopo una fase di stagnazione), o ci toccherà addirittura un andamento ad L, cioè un tracollo senza alcuna successiva ripresa?
Queste disquisizioni riguardano ovviamente l’economia globale, come pure il destino dei singoli paesi. Esse fanno però solo parzialmente i conti con lo sviluppo dell’epidemia, perché tutti capiscono che parlare di una ripresa a V o ad U di fronte all’ipotesi di nuove misure di confinamento non avrebbe senso alcuno.
Tuttavia anche questi esercizi da stregoni un senso ce l’hanno. L’importante è prenderli con le molle. Se le previsioni economiche valgono in genere molto meno di quelle meteorologiche, la loro inattendibilità non può che essere massima oggi, di fronte ad una crisi che presenta forme mai viste. C’è però un aspetto interessante, comune a tutte le previsioni uscite di recente. Ed esso consiste nel fatto che non solo la curva a V viene esclusa, ma pure quella ad U risulta una chimera. Di quella ad L non si parla, ma solo perché tutti questi studi partono da uno scenario base che non include nuovi lockdown.
Quel che ne viene fuori, specie per l’Italia, è esattamente la prosecuzione in peggio del trend degli ultimi dodici anni. Un calo (stavolta violentissimo), seguito da un rimbalzo che recupera solo in parte quanto perso. Con quali devastanti conseguenze sociali non è difficile da immaginarsi.
Le previsioni economiche di Bankitalia, Istat e Commissione europea
Naturalmente le previsioni sull’Italia sono correlate a quelle sull’economia globale, quella europea in particolare. Ma per non farla troppo complicata ci concentriamo qui sul nostro Paese. La prima cosa da notare, fra l’altro, è che i previsori non sembrano prendere troppo sul serio i piani di intervento europei (Recovery Fund, Mes, Sure), tutta roba che lasciano evidentemente (e comprensibilmente) agli addetti alla propaganda mediatica.
Le sentenze di Bankitalia, Istat e Commissione europea sono pesanti ed univoche. Limitandoci all’andamento del Pil, che si tira dietro tutti gli altri indicatori economici a partire dal tasso di disoccupazione (di cui parleremo più avanti), il quadro che ne esce è devastante. Per la Commissione europea, l’Italia perderà nel 2020 il 9,5%, con un recupero del 6,5% nel 2021. Analogo andamento lo prevedono sia l’Istat – con un calo dell’8,3% nel 2020 ed un +4,6% nel 2021 – che Bankitalia: -9,2% nel 2020, +4,8% nel 2021. Da notare che l’ipotetico segno + del 2021 deve applicarsi ai valori determinatisi nel 2020, per cui avremmo un calo complessivo del Pil nel biennio del 3,6% per la Commissione europea, del 4,1% per l’Istat, del 4,9% per Bankitalia. Ma per l’istituto di Via Nazionale le cose potrebbero andare anche peggio. Bankitalia affianca infatti a quello base, uno scenario più severo, con un tracollo del Pil del 13,1% quest’anno, ed un modesto recupero del 3,5% il prossimo.
Tralasciando qui quest’ultima ipotesi, avremmo comunque un picco medio nel 2020 del -9% ed un calo medio nel biennio del 4,2%. Se ora volessimo riportare questi dati nella figura con la quale abbiamo aperto questo ragionamento, dovremmo “sfondare” alla grande verso il basso il grafico fino ad un minimo del -13,5% rispetto al 2007, per tornare poi nel momento della “ripresa” ai valori minimi del 2013, cioè ad un -9,3% rispetto a tredici anni fa. Insomma, nella migliore delle ipotesi, l’ennesimo rimbalzo del gatto morto.
Il dramma sociale
Fin qui i freddi numeri dell’economia. Ma dietro a questi dati c’è la vita di tantissime persone. Queste cifre significano abbattimento del reddito per milioni di famiglie, molte delle quali scaraventate direttamente nella povertà; significano chiusura certa per centinaia di migliaia di piccole aziende. Significano una disoccupazione reale (disoccupati “ufficiali” più i cosiddetti “scoraggiati”) attorno al 25%. Sul punto gli studi che abbiamo citato sono come sempre reticenti. Quello di Bankitalia ammette una riduzione dell’occupazione del 10% in termini di ore lavorate, ma assicura che – grazie alla cassa integrazione – il calo effettivo del numero degli occupati sarà “solo” del 4%.
Ma mentre nessuno dice come oggi la cassa integrazione significhi un reddito da fame, spesso inferiore ai 700 euro mensili; anche un calo dell’occupazione “limitato” al 4% determinerebbe un milione di disoccupati in più. Cifra peraltro del tutto ottimistica, al punto che la stessa Confindustria ne stima invece un milione e settecentomila.
Oggi, quando si parla di disoccupazione e di cassa integrazione, non si deve pensare solo all’industria. Lo sguardo va infatti allargato ad altri settori, primi tra tutti quelli del commercio e del turismo-ristorazione. Nel quadro base di Bankitalia si prevede per quest’anno una diminuzione dei consumi delle famiglie dell’8,9%, accompagnata da un crollo degli investimenti del 15%. Il prossimo anno i consumi dovrebbero recuperare solo la metà di quanto perso nel 2020, ma peggio farebbero gli investimenti con un recupero limitato a circa un quarto di quanto lasciato sul terreno quest’anno. Altro che ripresa a V!
Il settore del commercio non potrà che risentire pesantemente di questa contrazione dei consumi. Ma a pagare il prezzo maggiore saranno i piccoli negozi al dettaglio, anche perché tutte le norme (spesso decisamente assurde) sul distanziamento fisico sembrano fatte apposta per favorire la grande distribuzione. Che infatti – ne abbiamo già parlato qui – ne sta approfittando alla grande. Sta di fatto che Confcommercio ipotizza la chiusura di ben 260mila esercizi commerciali, con la perdita secca di quasi un milione di posti di lavoro. Ancora peggiore la situazione nel comparto turismo-ristorazione, che genera da solo il 13% del Pil. Qui le norme anti-Covid colpiscono ancor più, ed il resto lo fanno la psicosi ed il blocco dei flussi turistici internazionali. Nell’insieme di questi due settori vi sono circa un milione e duecentomila contratti a termine e/o part time, molti dei quali decisamente a rischio.
Un altro comparto in crisi acuta è quello dell’edilizia. Pesanti le previsioni di Bankitalia sugli investimenti nelle costruzioni. Questo tipo di investimento, da sempre particolarmente sensibile alle aspettative delle famiglie, risente enormemente del fattore P, inteso come paura del futuro. Ed infatti, a fronte di un -13,3% per quest’anno, il recupero previsto per il 2021 si ferma ad un modestissimo +1,6%. E’ possibile che questo tracollo venga attenuato dagli effetti del superbonus del 110% sugli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, previsto dal “Decreto Rilancio”. Ma si tratterà pur sempre di un’attenuazione parziale e limitata nel tempo, non in grado comunque di fermare un’emorragia di posti di lavoro ben difficilmente inferiore alle duecentomila unità.
A questo punto qualcuno potrebbe sperare almeno in una tenuta dell’industria, ma si tratterebbe solo di un’altra illusione. Se i consumi interni tracollano, peggio ancora quel che possiamo attenderci dalle esportazioni. Il -15,9% previsto da Bankitalia per il 2020 non verrebbe recuperato neppure nel 2022, quando invece le previsioni pre-Covid davano per quell’anno una crescita cumulata del 7% sul 2019. Il disastro generale è tutto in queste cifre, ma ed essere particolarmente colpiti saranno i settori dell’automobile e del tessile abbigliamento, moda inclusa.
Il governo della miseria
Finora ci siamo occupati di previsioni. Ma le previsioni, si sa, valgono quello che valgono. Purtroppo, però, quelle economiche peccano in genere di ottimismo. Dunque, se è praticamente da escludere che le cose vadano meglio, è piuttosto probabile che vadano invece peggio rispetto allo scenario base che abbiamo qui esaminato.
Ci aspetta dunque un dramma occupazionale senza precedenti, dove il problema non sarà solo l’aumento del numero dei disoccupati, ma la crescita a dismisura della precarietà e la conseguente diminuzione del reddito di milioni e milioni di persone.
A fronte di questa situazione il governo ha deciso di consegnare il Paese ai tecnocrati di Bruxelles. Abbiamo già scritto come il Recovery Fund altro non sarà che un Mes all’ennesima potenza, mentre nelle misure sin qui prese (vedi il già citato “Decreto Rilancio”) non c’è lo straccio di un piano di salvataggio dell’Italia. In particolare brilla l’assenza di un piano di investimenti pubblici in grado di trainare l’economia fuori dalla crisi.
Poiché da quell’Europa che la propaganda pretenderebbe “generosa” non tarderanno invece ad arrivare i soliti richiami al rigore ed alle regole del bilancio, è chiaro come – con queste scelte – l’economia nazionale sia stata messa su un binario con una sola destinazione: il baratro di una crisi senza fine.
Prepariamoci a combattere
Come ho scritto già a marzo, ma oggi è ancora più chiaro, l’unica cosa da fare è quella di prepararsi a combattere. Combattere per le condizioni di vita e per i diritti sociali più elementari di milioni di persone, combattere contro la gabbia dell’UE e dell’euro, dentro la quale nessuna vera soluzione sarà mai possibile.
Per combattere vittoriosamente servono le forze, le armi, la determinazione ed un buon piano di battaglia. Tutte condizioni che dipendono da un insieme di fattori.
Di per sé le crisi – lo si è visto nel 2009 – non determinano un’automatica ripresa del conflitto sociale. Perlomeno non nei termini classici novecenteschi. Ma stavolta le dimensioni del disastro sono ben più grandi, tali da determinare sconquassi sociali mai visti negli ultimi 75 anni. Dunque, prevedibilmente, le forze vi saranno. Ma in quale direzione si muoveranno? Ecco, questo dipenderà dalla capacità di costruire un quartier generale in grado di fornire le armi della critica e della strategia, basi fondamentali per sviluppare l’unità e la determinazione necessaria a vincere.
Se liberarsi dalla gabbia eurista è il primo passo da compiere, costruire un Comitato di liberazione nazionale che assolva a questi compiti è urgente più che mai. Nel bene o nel male, i prossimi mesi saranno decisivi.
*Leonardo Mazzei è membro del Coordinamento nazionale di Liberiamo l’Italia