L’appuntamento degli Stati generali dell’economia è previsto a Roma proprio domani, sabato 13 giugno presso Villa Pamphili, in cui si ritroveranno i rappresentanti del governo e delle parti sociali (associazioni di categoria e sindacati), assenti le opposizioni. In quella sede verrà messo a punto il cosiddetto “Recovery plan italiano”, ovvero quello che dovrebbe essere il piano di rilancio economico che avrà come esplicito punto di riferimento il rapporto Colao sulle misure di contrasto degli effetti economici del Covid-19.
Questo piano però non porta la firma di una componente importante della task force che l’ha prodotto, l’economista Marianna Mazzucato, chiamata da Conte già a febbraio in qualità di consulente, quindi prima della crisi Covid e dell’avvento dello stesso Colao. In una audizione in Commissione Affari Europei la professoressa Mazzucato ha dichiarato come suo principale obiettivo quello della “mission” affidatale da Conte e non il progetto della task-force, senza poi entrare nei termini del rifiuto, che invece ora cerchiamo di motivare a partire dalla visione economica che la professoressa ha costruito nella sua brillante carriera.
Prima occorre fare una breve premessa.
Ai nostri occhi, critici verso le posizioni di questo governo e ciò che rappresenta nel rapporto con l’UE, sarebbe fin troppo facile presentare questi contrasti come interni ad un sistema che è da superare in toto e che quindi non ci interessano. Così come sarebbe in generale poco avveduto considerare utili i contributi teorici di economisti solo nel caso in cui fossero disposti ad accettare le nostre posizioni. Ad esempio, se l’analisi di un economista mostrasse che l’UE non funziona e fosse necessario un radicale cambiamento, toccherebbe poi a chi ne trae conclusioni politiche dimostrare se e in che misura questo sarebbe possibile all’interno dell’UE. Se l’analisi è considerabile valida, essa può essere comunque utile a prescindere dalle iniziali intenzioni e valutazioni politiche di chi la elabora: valutazioni che potrebbero essere invece pessime se non considerano ciò che l’UE ha mostrato essere fino ad oggi per i danni provocati ai paesi del sud Europa e il disastro che potrebbe diventare (vedere la sentenza tedesca).
Accettando questa premessa di metodo, si è in grado di intervenire con più efficacia nelle contraddizioni espresse dal sistema di potere. Evidenziamo in primo luogo, nell’analisi di Marianna Mazzucato, che un tratto assolutamente significativo riguarda il ruolo fondamentale dello Stato nel processo di innovazione e a tal proposito riprendiamo sommariamente alcuni passaggi di uno dei suoi testi più conosciuti – “Lo Stato innovatore” – dove vengono posti in discussione una serie di miti espressione della cultura neoliberista del mainstream.
Innanzitutto, nella configurazione del rapporto tra Stato e mercato viene espressa l’idea che un mercato che si regola da sé sia un mito privo di fondamento nelle origini storiche dei mercati, idea già espressa da Polanyi nella Grande trasformazione, direttamente citato nel testo: «la strada verso il libero mercato era aperta ed era tenuta aperta da un enorme aumento in un continuo interventismo centralmente organizzato e controllato».
La priorità dello Stato viene poi ribadita nel processo di innovazione, che richiede investimenti in ricerca e sviluppo di lungo periodo, un periodo incompatibile con la logica del profitto delle imprese e quindi con i tempi di rientro degli investimenti privati. Anche perché spesso gli investimenti nella ricerca rappresentano un bene pubblico, che rende complicato per l’impresa rientrare nei costi con gli utili, in quanto il bene pubblico è accedibile anche ad altre imprese che non ne hanno affrontato i costi.
Ma a questi aspetti relativi al fallimento del mercato negli investimenti in ricerca se ne aggiunge un altro, il vero fulcro del contributo teorico, che contrasta un mito diffuso dai media e dai “politici ultraliberisti” (definiti così nel capitolo primo del libro) secondo cui: ridimensionando lo Stato, lo spirito imprenditoriale e la capacità di innovazione del settore privato potranno dispiegare tutta la loro forza.
Questo mito viene abbattuto a partire dalla descrizione di come sono realmente avvenute le recenti scoperte più innovative nell’ambito dell’informatica, delle nanotecnologie e della farmaceutica, proprio negli Stati Uniti dove il mito liberista è più forte e dove invece lo Stato è più determinante che in altre parti nel campo dell’innovazione.
Queste scoperte non sono avvenute perché il settore privato voleva qualcosa senza avere le risorse per investirci che poi sono state fornite dal settore pubblico: sono avvenute, invece, grazie alla capacità di visione dello Stato in un’area che il settore privato ancora nemmeno immaginava.
Una su tutte, prendiamo il simbolo per eccellenza dell’innovazione anche per il profano, l’azienda Apple: un’azienda che risulta ben lontana dall’essere quell’esempio sbandierato di efficienza del mercato. È un’azienda che, oltre a ricevere finanziamenti pubblici nelle prime fasi della sua esistenza (attraverso appositi programmi) ha fatto leva, in modo indubbiamente ingegnoso, su tecnologie finanziate dallo Stato per creare prodotti smart.
Tutte le tecnologie chiave dell’iPhone sono state finanziate dallo Stato (internet delle cose, il Gps, il touch screen e tutte le tecnologie di comunicazione).
Se lo Stato è il vero motore dell’innovazione in quanto l’orizzonte della sua visione può arrivare là dove alle imprese non è concesso di vedere, un corollario è che lo spiazzamento (sostituzione) degli investimenti pubblici rispetto a quelli privati non sta in piedi, che tradizionalmente è una delle argomentazioni per impedire l’intervento dello Stato nell’economia: pertanto se lo Stato non investisse, quel valore in più semplicemente non ci sarebbe.
Da questo ritratto emerge che l’intervento dello Stato nell’economia è indispensabile non solo per finanziare la ricerca di base o per finanziare un prodotto quando questo è un bene pubblico, ma anche (come dimostrano soprattutto gli US) quando l’investimento richiede visione strategica e perseguimento dell’innovazione.
Bisogna sottolineare molto bene questo punto.
Se lo Stato fornisse risorse alle imprese considerate più innovative nel mercato, attraverso defiscalizzazione o sovvenzioni, queste non otterrebbero i risultati prodotti dall’azione diretta dello Stato, perché solo quest’ultimo può determinare quelle innovazioni tecnologiche di rilievo in grado di creare nuove opportunità di mercato per le imprese, che solo a quel punto sarebbero in grado di coglierle. Infatti studi a livello di impresa hanno dimostrato come il fattore che influenza la decisione da parte di un’azienda di entrare o meno in un certo settore non sia il livello esistente dei profitti, ma le opportunità tecnologiche e di mercato sviluppate in gran parte dagli investimenti pubblici in quel settore.
Descritta la dinamica “reale” vediamo la configurazione dei rapporti instaurati tra i soggetti in gioco.
La Mazzucato definisce il rapporto tra impresa e Stato come parassitario, che schematizziamo nel seguente modo: lo Stato fa gli investimenti di lungo periodo (poniamo 15 anni) cosa che le imprese non fanno perché ragionano su un periodo di rientro degli investimenti più breve (poniamo 3 anni, ad essere generosi).
Dopo una dozzina d’anni d’investimento le opportunità di profitto della tecnologia che si sta sviluppando iniziano a prendere forma, a quel punto interviene l’impresa che si intesta il prodotto sviluppandolo e commercializzandolo.
Non solo, ma quando la grande impresa ha risparmiato in “ricerca” (di cui si è fatto carico lo Stato) quelle risorse vengono investite nel settore finanziario attraverso l’acquisto delle proprie azioni, che acquistano valore e consentono al top management più lauti compensi (che sono legati al valore delle stock options).
Ma non basta: dopo essersi intestata il merito dell’innovazione che agli occhi di tutti è suo in quanto ha curato la commercializzazione, la grande impresa pretende anche riduzioni di tasse come incentivo all’innovazione!
Ma questa riduzione di entrate per lo Stato si riflette negativamente proprio sugli investimenti pubblici destinati all’innovazione: il ruolo subalterno dello Stato alla fine viene pagato con minore sviluppo e questo richiederebbe un cambiamento, tanto più urgente quanto la crisi innescata dal Covid si abbatterà sul nostro sistema produttivo.
Questa drammatica crisi deve, da un certo punto di vista, essere letta come un’opportunità perché sta mettendo in discussione tutta una serie di miti legati al rapporto tra Stato e mercato.
In un articolo dell’8 aprile sul Sole 24ore Marianna Mazzucato afferma appunto che la crisi Covid-19 sta rivelando le falle nel sistema economico riconducibili in buona parte al deterioramento del potere contrattuale dei lavoratori e che i governi stanno concedendo prestiti al settore privato in un momento storico in cui è a livelli molto elevati (si riferisce agli US qui la situazione è ancora più complicata perché i prestiti neanche arrivano).
A tal proposito la Mazzuccato ricorda come la crisi iniziata dieci anni fa sia stata determinata dal versante del debito privato e che anni di austerità, dovuti a un errata considerazione sul ruolo del debito pubblico, hanno indebolito le istituzioni del settore pubblico cruciali per superare una crisi come quella che stiamo attraversando.
L’opportunità della crisi economico-sanitaria descritta nell’articolo, con lo Stato chiamato in causa nella gestione della fase emergenziale, per la Mazzucato è la seguente: “ora che lo Stato è tornato ad assumere un ruolo guida, dovrà fare la parte dell’eroe, non del burattino, il che significa fornire soluzioni immediate, ma concepite per servire l’interesse pubblico nel lungo termine. Si potrebbero, ad esempio, introdurre condizionalità per il sostegno statale delle imprese. Le aziende beneficiarie degli aiuti dovrebbero essere tenute a mantenere in servizio i propri dipendenti e a garantire che, una volta risolta la crisi, investiranno nella loro formazione e nel miglioramento delle condizioni di lavoro [oltre a] impedire il riacquisto di azioni proprie”. Oltre ad evitare che “le multinazionali ricavino [dall’intervento dello Stato] enormi profitti, rivendendo al pubblico un prodotto nato dalla ricerca finanziata con i soldi dei contribuenti”.
Si spera che in funzione di quanto detto in precedenza i passaggi dell’articolo siano chiaramente compresi, come sia chiaramente compresa l’incompatibilità di questa posizione rispetto all’idea di innovazione contenuta nel piano Colao, a cui dedicheremo solo poche righe.
Nel piano si parla di incentivi alla ricapitalizzazione delle imprese, ma si ipotizza un ingresso diretto dello Stato nel capitale soltanto “in situazioni di emergenza” e con interventi “temporanei e selettivi”.
Anche il sostegno all’innovazione, secondo il rapporto, deve passare attraverso incentivi e sgravi alle imprese, non dall’intervento pubblico: la solita ricetta fallimentare di uscita dalla crisi con lo Stato che tampona l’emergenza e le grandi imprese che sgravate dal carico fiscale faranno la parte del leone.
Come abbattere questo mito del leone per affermare, proprio nel momento in cui occorre rispondere alla crisi, uno Stato forte e interventista nel processo di innovazione? Per questa conclusione ci rifugiamo in quanto scritto da Keynes in una lettera del 1938 indirizzata a Roosevelt, riportata nel testo della Mazzucato ed in cui il grande economista parlava delle imprese come di animali addomesticati:
«Gli uomini d’affari hanno illusioni diverse da quelle dei politici, e richiedono dunque un altro approccio. Essi sono, tuttavia, alquanto più mansueti dei politici: sono allettati e terrorizzati al tempo stesso dai bagliori della notorietà, si lasciano convincere facilmente a mostrarsi «patriottici», sono perplessi, sconcertati o proprio terrorizzati, eppure fin troppo smaniosi di sposare una visione ottimistica, magari vanitosi ma molto insicuri di sé, pateticamente sensibili a una parola gentile. Si potrebbe fare ciò che si vuole con loro trattandoli (anche i grandi imprenditori) non come lupi o tigri, ma come animali domestici per natura, per quanto educati male e non addestrati come si vorrebbe. È un errore pensare che siano più immorali dei politici. Se li si lascia indulgere all’umore scontroso, caparbio, terrorizzato di cui gli animali domestici danno così spesso prova quando sono mal governati, non sarà il mercato a farsi carico dei fardelli della nazione, e alla fine l’opinione pubblica si orienterà dalla loro parte».
* Vadim Bottoni, economista e membro del Coordinamento nazionale di Liberiamo l’Italia
Eppure…(non sono certo un’economista), eppure c’è qualcosa che non mi torna. “Nel piano si parla di incentivi alla ricapitalizzazione delle imprese, ma si ipotizza un ingresso diretto dello Stato nel capitale soltanto “in situazioni di emergenza” e con interventi “temporanei e selettivi”.
Non mi torna forse…quel “mythos”, narrazione, che vorrebbe lo stato (quale? lo stato “americano”, US, può assimilarsi allo stato italiano?) coinvolto istituzionalmente, anzi “sua ipsa sponte”, nella costruzione e progettazione economica. Lo stato italiano (in quanto ceto dominante, mai dirigente, come osservava Gramsci) forse, storicamente, è stato e resta indifferente in fondo alle questioni economiche. Impegnato sempre invece nella progettazione e gestione del potere pro domo sua (scusate il ricorso velocizzante alle locuzioni latine). Io vedo ancora l’ “obbedisco perché devo obbedire”, quale fine primario e ultimo dello stato italiano. Il piano Colao non farebbe che assecondare, impersonare senza percepite controversie, questa forma.