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CENTO E NON PIU’ CENTO

di Alberto Melotto*
23 Luglio 2020
in Politica
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CENTO E NON PIU’ CENTO
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Il Piano di Riforma è ormai in dirittura d’arrivo, iniziava con questo tenore un articolo del quotidiano La Stampa di lunedì scorso. Per quei pochi nostalgici, ancora legati al significato originario del vocabolo (dal vocabolario della lingua italiana, riforma: il riformare; il modificare a scopo di miglioramento uno stato di cose, un’istituzione, ecc.) queste nostre righe potranno costituire un trauma, uno shock. Infatti, le decisioni comunicate dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte sono perfettamente in linea con l’etica al contrario perseguita dai governanti italiani negli ultimi quarant’anni, l’etica dell’inganno, se ci è concesso quest’ossimoro.

Prima di tutto, questo tanto decantato e strombazzato Piano di Riforma non è il frutto del lavoro autonomo e indipendente dell’esecutivo e del Parlamento Italiano, bensì l’esito dell’ennesima, fortissima pressione proveniente dall’Unione Europea. Già, perché questo pacchetto avvelenato di novità nasce dall’intento di poter accedere ai fondi europei legati al programma Next generation, altro nome del Recovery Fund. A quanto afferma il Ministro del Tesoro Roberto Gualtieri, l’adesione a Next generation si accompagnerà al ripristino del Patto di Stabilità, momentaneamente messo in panchina durante i mesi più crudi del lockdown. Nell’ambito di quella ripresa del Patto di Stabilità, continua Gualtieri, “il Recovery Plan sarà accompagnato da un aggiornamento del Programma di Stabilità che presenterà non solo nuove proiezioni fino al 2023, ma anche un piano di rientro del rapporto debito-Pil su un orizzonte decennale”.

Cosa significa rientrare nei ranghi del Patto di Stabilità (ranghi dai quali non siamo mai davvero usciti, purtroppo)? Significa, per la nostra nazione, dover obbedire a quelle fredde cifre che impongono di ripagare il debito verso le banche estere, a scapito della spesa pubblica per comparti quali sanità, istruzione, enti locali.

Non solo, ma oltre ai tagli già noti, vi sarà un’altra, sanguinosa, contro-riforma, ovvero la fine della cosiddetta quota cento. Sempre dal quotidiano torinese apprendiamo che “l’esecutivo giallorosso conferma la fine di quota 100 nel 2021 e ricorda che le prossime scelte sulle pensioni saranno dettate dalla sostenibilità di lungo periodo, mirando alla tenuta dei conti e al rispetto dell’equità intergenerazionale”.

Tradotto dal consueto lessico finto-progressista, ciò significherà nella sostanza, un deciso innalzamento dell’età pensionabile. Chi si trova vicino all’agognata pensione si troverà nella situazione di dover protrarre il proprio percorso lavorativo, mentre per molti giovani il tanto atteso ingresso nel mondo del lavoro verrà rimandato a data da destinarsi. Il ragionamento sotteso a questa bozza di futuro provvedimento è sempre quello, caro a tutti i fautori del pensiero unico neo-liberista, ovvero l’idea che lo Stato italiano spenda per i servizi che esso stesso eroga ai cittadini, molto di più di quanto non incassi sotto forma di tasse. In realtà, è vero l’esatto contrario. Studi indipendenti provano che l’Italia da circa trent’anni a questa parte, è fra i paesi con il maggior avanzo primario annuale, una cifra che si attesta intorno ai 70 miliardi di euro annui. Soldi che sarebbero di vitale importanza per il nostro bilancio, che si tradurrebbero molto concretamente in una molto maggiore disponibilità dello Stato a investire nel benessere dei suoi cittadini. Quell’enorme fiume di denaro, invece, fatto del lavoro e della fatica di tutti noi, finisce nei forzieri delle banche estere, titolari di quei titoli di stato italiani che fruttano interessi altissimi, grazie all’immonda decisione partorita da Andreatta e Ciampi nel 1981, e che abbiamo più volte raccontato. Occorrerebbe una moratoria sul debito pubblico italiano, che miri quantomeno a congelare la parte del debito (circa la metà del totale) in mano agli istituti di credito, ma questa misura non appare mai nell’agenda dei diversi governi che si susseguono alla guida del nostro paese.

Viene meno, dunque, uno dei pilastri della diversità grillina, ovvero quel keynesismo abborracciato e approssimativo che comunque aveva segnato una discontinuità rispetto alla feroce linearità della riforma pensionistica Fornero. Nel 2011, diverse centinaia di migliaia di italiani vennero lasciati nel limbo a metà tra il lavoro e la pensione, privati dunque di ogni forma di reddito e di sostentamento. Il governo gialloverde pose parzialmente rimedio a questo stato di cose, senza però porsi il problema di come trovare le risorse finanziarie a tempo indefinito, per un così ambizioso intervento. Il braccio di ferro tra l’Italia e l’Unione Europea nell’autunno del 2018 si risolse in un permesso, da parte di quest’ultima, di sforare al 2,04%, ben poca cosa rispetto alle autentiche necessità del popolo italiano.

Un altro cardine dell’identità Cinque Stelle, quella della lotta all’Alta Velocità, era già venuto meno nell’estate dell’anno scorso, e ne troviamo conferma nella bozza del Piano di Riforma. Come già annunciato da televisioni e giornali, le procedure riguardanti gli appalti pubblici verranno notevolmente semplificate. Quanto ciò significhi, in termini di infiltrazioni della criminalità organizzata, è facile intuirlo. Dalle parole dello stesso Presidente del Consiglio, si delinea un panorama nel quale il singolo sindaco avrà ben pochi strumenti per opporsi ad una qualsiasi grande opera, Tav sopra tutte. Non a caso, lo slogan governativo in questo ambito riguarda proprio l’estensione dell’Alta Velocità all’intero suolo italiano, con la promessa di poter raggiungere Roma da tutta Italia in quattro ore e mezzo, che è grosso modo il tempo impiegato da un pendolare per raggiungere il luogo di lavoro, nei giorni in cui si verificano ritardi o guasti ai treni.

Nelle intenzioni, il governo intende raccogliere quanto ha seminato nei mesi degli arresti domiciliari collettivi: l’idea di una tregua sul fronte fiscale sparisce senza lasciare traccia, si parla anzi di un “rafforzamento dell’efficacia della riscossione”, e come sempre, a prevalere è il sistema del bastone sulla carota: chi può giurare che l’autunno non portì con sé la seconda ondata, a piegare definitivamente le velleità di protesta dei milioni di tartassati?

*Alberto Melotto è membro del Cpt di Torino

Tags: Alberto MelottoPatto di stabilitàPiano di riformaRecovery fund
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Comments 1

  1. Lidia Beduschi says:
    2 anni fa

    Prepariamo per l’autunno “l’ultima onda” per questo non-governo (i 280 milioni e passa regalati dal Conte rampante a Bill Gates, ci prospettano una “seconda ondata qualsivoglia sia, purché sia”. Non possiamo stare a guardare, non possiamo “docilmente” fare gli schiavi di questi idioti pagati criminali. Insisto per una prima azione da avviare subito, approfittando anche dell’imminente davverotv sul digitale terrestre: un ricorso a Tribunale Permanente dei Popoli. E il salto già “promesso”: un nuovo partito pronto a raccogliere i milioni di scontenti, disperati, arrabbiati, pensanti, per liberare davvero l’Italia. Prima da costoro, poi da “sorella” UE.

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