Vita difficile per l’italiano medio nell’estate del 2020.
Il Paolo Rossi nostrano è riuscito a non lasciarsi angosciare dalla dichiarazione dei redditi da compilare e presentare, e allo stesso modo non si scompone per i pochi, pochissimi soldini rimasti nel conto corrente: ammuffito, infeltrito da mesi di spietata reclusione involontaria voluta dal governo, ha deciso che non ne può proprio più della città e del cemento, ha bisogno di respirare, almeno con lo sguardo, dacché la mascherina dovrà portarsela sempre con sé, così vogliono le autorità superiori.
E dunque: che mare sia, sette giorni di spiaggia non glieli leverà nessuno, e che cavolo, ogni tanto bisogna imporsi.
Così fa i bagagli, sale in macchina e si invola verso l’autostrada.
Da solo, perché la forzata reclusione non gli ha permesso di socializzare a dovere con l’altro sesso nei mesi appena passati.
Fra marzo e giugno, la sua vita sociale è consistita in dialoghi in vestaglia e pantofole con i colleghi di ufficio illuminati dalla fredda luce della web-cam, e furtive visite al mini-market sotto casa, dove acquistare cordon bleu da mangiare, anzi succhiare semicongelati (il suono del forno a microonde poteva insospettire i vicini di casa, già pronti a chiamare le forze dell’ordine).
Normalmente, potrebbe recuperare nell’ameno luogo dove è diretto, magari invitare la vicina di ombrellone a ballare al chiaro di luna, ma da quanto ha potuto leggere sul suo smartphone, solo fra congiunti sarà possibile ballare guancia a guancia.
Per chi non è formalmente sposato, sarà opportuno limitarsi a lunghi sguardi carichi di languore, e di malinconia.
Il nostro Paolo rimugina questi cupi pensieri, e già prova una sensazione di peggioramento, la sensazione di star rotolando all’infinito lungo un piano inclinato.
Per scacciare questo umore umidiccio e paludoso, prova ad accendere l’autoradio, nella speranza di poter ascoltare uno di quei brani catchy, come dicono gli inglesi, quei brani di facile presa, dal ritornello che una volta nell’etere, non si dimentica più. Un tormentone estivo, insomma.
Con il nuovo millennio e la morte dell’industria discografica, quel tipo di musica semplice ma aggraziata non c’è più, sostituita dal monotono lamentio dei cantanti trap.
A furia di cambiare stazione, Paolo trova l’erede dei tormentoni che furono: il virologo che tormenta.
Per la millesima volta, Paolo viene ammonito, esortato, blandito e minacciato, tutto in pochi secondi: non è tempo di essere irresponsabili, non vorrà mica tornare a stringere la mano ad un amico, ad abbracciare una persona cara, vuole forse farsi carico di un prepotente ritorno della pandemia, vuol forse fare piangere le madri e le nonne di un’intera nazione?
Pensi piuttosto a distanziarsi dagli altri esseri umani, cerchi di guardarli con sospetto e diffidenza, stia lontano dagli assembramenti, soprattutto da quelli dove si discute della cosa pubblica, e cerchi di avere paura, molta paura, cieca paura. Perché la paura è bella e forte, e rende liberi.
Ormai esausto dopo poche ore di viaggio, Paolo è quasi giunto a Genova, dalla grande città (ex) industriale del Nord dalla quale è partito al mattino.
Da lì alla località marittima che ha scelto per la sua gioiosa vacanza, manca poco, il viaggio volge al termine. Rimane ancora un ultimo, odioso balzello. Il pagamento del pedaggio al casello dell’autostrada.
Prima di partire, Paolo ha visto al telegiornale che il presidente del consiglio non vuole rinnovare la concessione delle autostrade ai privati che le hanno gestite, con lauti incassi, negli ultimi vent’anni.
Da quanto ha capito, mentre succhiava un ghiacciolo (o era un cordon bleu avanzato nel freezer?) il premier pare essere addolorato per i 43 morti a causa del crollo del ponte Morandi di Genova di due anni fa.
O forse è addolorato per i sondaggi che lo danno in netto calo di popolarità.
In ogni caso, il presidente del consiglio pare intenzionato a nazionalizzare, (al 51%, non sia mai che si nazionalizzi al 100%). Certo, pensa Paolo, si spera che questi nuovi gestori non si comportino come quelli di prima, ovvero che non scelgano di trascurare colpevolmente la manutenzione delle strade e dei ponti, per puntare unicamente sul massimo del profitto possibile, a scapito delle vite umane?
Questi pensieri affollano la mente del nostro Paolo anche quando, sceso dalla sua bella automobile, si concede una passeggiata sul lungomare, prima di recarsi all’alberghetto dove ha prenotato.
Mentre osserva il sole scendere nelle acque del mare, si ricorda di una frase che un’artista giapponese consegnò ad un celebre cantante degli anni sessanta, ad una mostra d’arte.
La frase, in realtà una sola parola, era scritta su un biglietto da visita.
La parola diceva “Respira”.
In questo particolare momento della sua vita, a Paolo sembra il migliore, il più nobile degli insegnamenti da seguire.
*Alberto Melotto è membro del Cpt di Torino
Certo, ne abbiamo tutti bisogno, di respirare. Con i polmoni. Con la mente. Con l’anima, il cuore, le emozioni, scegliete quello che più vi piace. Ma per tornare a respirare abbiamo bisogno di liberarci di costoro, servi, venduti e tanto frequentemente idioti. Del resto l’idiozia è la base su cui poggia tutto il resto. Forza, usiamo anche altre penne o tastiere.
Bello questo “racconto” che sembra un dipinto del realismo sociale post-moderno, grazie. Avrei voluto scriverlo io, tanto mi è familiare l’esperienza umana che descrive….
Bel racconto, reale crudo e onesto.
Grazie per condividerlo