In un articolo della scorsa estate commentavo stupito l’intervento del professor Panebianco sul Corriere della Sera del 3 Agosto. Lo interpretavo come un messaggio, in realtà piuttosto criptico, alle componenti europeiste interne alla Lega alle quali veniva proposta l’alleanza con l’élite liberale in cambio dello sganciamento dalle posizioni radicali di Salvini; l’obiettivo era l’aggregazione di un polo di destra liberale classica.
Ieri sull’huffingtonpost un altro guru del liberalismo conservatore, Paolo Mieli, muove, a commento del recente risultato elettorale, un passo in avanti nella direzione del depotenziamento della carica no euro della destra.
Mieli è decisamente più esplicito di quanto non sia stato il professore bolognese ad Agosto: chiede a Lega e Fratelli d’Italia di allontanare dalla segreteria gli attuali leader Salvini e Meloni, questi dovrebbero ritagliarsi i prestigiosi ruoli di sindaci di Milano e Roma; nel contempo i due partiti sono chiamati a cambiare pelle, “devono fare una rivoluzione importantissima sul terreno della politica internazionale” – dice convinto Mieli – “e definirsi con un partito che chieda l’iscrizione al Partito popolare europeo. Insomma, mettersi nel solco dei partiti moderati e conservatori europei …”. “Una Bolognina” – la definisce, ricordando il luogo nel quale, nel 1989, l’allora segretario del PCI annunciò l’intenzione di cambiare nome al partito.
La cosa interessante è che, dalla Lega, un forte richiamo alla real politik sulla scena internazionale era arrivato, proprio il giorno prima, dalla voce di Giancarlo Giorgetti, autorevolissimo dirigente del Carroccio.
Lo spunto veniva dal voto al parlamento europeo sulla Bielorussia: il gruppo parlamentare leghista non aveva appoggiato la posizione maggioritaria e atlantista di condanna del presidente Lukashenko: “il vero nodo strategico per l’opposizione” – dichiara Giorgetti al Corriere – “è costruire un solido sistema di relazioni con le maggiori cancellerie internazionali e un rapporto più stretto e non conflittuale con l’establishment europeo”.
Giorgetti però va oltre il richiamo alla fedeltà europeista: “Se vorremo in futuro governare, Matteo dovrà incontrare Draghi e poi chiedere l’iscrizione al Ppe” – dichiara – “bisogna cambiare direzione” – aggiunge, mostrando una consonanza profonda e non casuale con le proposte di Mieli e di Panebianco.
Questo è forse il risultato profondo della tornata elettorale e foriero dei più duraturi effetti politici: senza nessun concreto aggancio al dato numerico, si dichiara il PD vincitore e si certifica che la destra, così com’è, non può vincere e se vincesse non potrebbe governare.
Si lavora quindi per l’ennesima svolta gattopardesca: se la sinistra liberale non può più aspirare alla maggioranza, nemmeno con l’inglobamento organico degli ormai debolissimi pentastellati, allora che cambi politica, la parte avversa, e modifichi l’atteggiamento sovranista a favore di una più remissiva politica moderata, gradita alla finanza globalista di cui Panebianco, Mieli, e Giorgetti sono esplicitamente l’espressione.
Il progetto che si delinea appare sensato, e certamente, visto il rango di chi si sta esprimendo in quella direzione, ben attrezzato.
Bisognerà vedere come si muoveranno e reagiranno le componenti interne alla Lega e FDI più legate al progetto antieuropeista e naturalmente sondare le reazioni dell’elettorato all’ennesima svolta trasformistica.
Di certo, ad un anno dalla fine del Conte 1, la maggioranza degli elettori che aveva votato nel 2018 per i partiti critici o contrari alle posizioni europeiste, rischia di trovarsi totalmente priva di rappresentanza. Una bella sfida e una bella opportunità per i sovranisti costituzionali.
*Alessandro De Giuli è membro del cpt di Firenze
Giusto Alessandro, condivido la tua riflessione.