Dopo poco più di un mese la scuola italiana torna a chiudere. Certo, non lo fa integralmente, visto che elementari e medie restano, per il momento, aperte. Ma le scuole superiori passeranno, da domani, alle famigerata “didattica a distanza” (DAD) per una quota pari “almeno al 75%”. Vale a dire, che a scuola, fisicamente, potrà andare solo una classe su quattro. Le scuole di primo grado (elementari e medie), al momento restano aperte, ma stanno sprofondando nel caos ogni giorno di più.
Provo a raccontare quale sia la situazione al momento.
La didattica a distanza è stato un esperimento dichiarato fallito: questa estate tutti si sono trovati d’accordo su questo giudizio: insegnanti, studenti, famiglie, perfino i presidi, il Ministro dell’istruzione e addirittura il Primo Ministro Conte.
Ma poi è arrivato l’autunno.
E se da una parte non si è fatto assolutamente niente per mettere le scuole in sicurezza (edilizia assente, assunzione di nuovi insegnanti e di nuovi collaboratori assente, creazione di nuovi spazi niente, potenziamento dei trasporti non pervenuto), dall’altra si è voluto creare un clima emergenziale e isterico; ecco quindi che a Palazzo Chigi hanno preso l’unica soluzione alla loro portata: la chiusura “de facto” delle superiori.
La tesi del governo è paradossale: abbiamo fatto di tutto per mettere in sicurezza le scuole e ci siamo riusciti (davvero?!), ma purtroppo ci siamo dimenticati dei trasporti. O meglio, se ne sono dimenticati quei cattivoni dei governatori regionali che avrebbero dovuto pensarci (ovviamente a costo zero).
In effetti le quotidiane foto che circolano in rete con gli autobus strapieni di ragazzi pigiati all’inverosimile non sono un gran bel biglietto da visita sull’efficacia delle politiche di contenimento.
E tuttavia sia chiaro che non c’entra la pericolosità del virus o il numero dei contagi: le statistiche che vengono fornite sulla scuola da una parte e dall’altra sono molto fumose; da una parte i catastrofisti che, volendo creare ad arte un clima di isteria, dipingono le scuole come incendi virali, facendo corrispondere l’impennata della curva dei contagi con la riapertura delle scuole. Dall’altra la Ministra Azzolina che dipinge le scuole come luoghi “assolutamente sicuri”.
Ovviamente sono false entrambe le affermazioni, vediamo perché.
Che la scuola sia un luogo sicuro: gli equilibrismi sul “metro statico”, le “rime buccali” e altre amenità non stanno ovviamente in piedi. La scuola è quella degli anni passati. Alcuni bollini incollati a terra per separare i banchi in luoghi chiusi e angusti non fermano certo un virus influenzale (covid o altro). Se il COVID-19 fosse davvero qualcosa di simile alla spagnola, la scuola si trasformerebbe presto in un lazzeretto e questo va detto.
Ma così non è.
Che la scuola sia un focolaio: anche questa affermazione è falsa. Se è vero che la scuola non può dirsi un posto sicuro, è anche vero che non si registrano al momento numerosissimi casi di contagio e, dove questi ci siano, non si hanno comunque notizie di alunni o insegnanti con gravi patologie e bisognosi di ricoveri in terapia intensiva. Sono sensazioni basate sull’esperienza e le conoscenze di chi ci lavora, quindi ben distanti da una statistica nazionale, ma sono sicuro che se qualche insegnante fosse finito in terapia intensiva perché contagiato a scuola, la notizia avrebbe occupato le prime pagine di Corriere e Repubblica per un bel po’.
Il problema del caos non è quindi da ricercarsi nel numero e soprattutto nella gravità dei contagi, ma nei protocolli per contenere la diffusione del virus che, come anticipato su questo sito in estate, si sono rivelati per quello che erano: una chiusura mascherata. Mandare in quarantena preventiva un’intera classe con tutti i docenti se viene trovato un asintomatico rendeva difficilissima la gestione dell’organizzazione didattica già a settembre, quando i tamponi venivano fatti nel giro di 24-48 ore al massimo. Ora che per un tampone si aspettano giorni, questo meccanismo sta semplicemente rinchiudendo in casa settori sempre maggiori di popolazione scolastica. Tra poco anche le scuole elementari e medie quindi chiuderanno per mancanza di classi e docenti.
Bando a tecnicismi e cerchiamo di tirare le somme: nella capitolazione del governo Conte (perché è ovvio che neppure per lui dichiarare un altro lockdown sia una buona notizia) la scuola occupa un posto di primo piano, quasi il simbolo di una sconfitta totale.
Ma c’è un punto più generale che voglio sottolineare con forza perché a mio avviso è la chiave di tutto e se non si capisce non se ne esce: la scuola così come tantissimi altri aspetti della nostra vita sono vittime della terribile e sciagurata ideologia che la maggioranza sta cercando di imporre, ovvero quella di dividere la società tra attività essenziali e attività non essenziali.
Si è partiti in agosto dicendo che le discoteche erano veicolo di contagio (senza che si portassero dati solidi al riguardo) e soprattutto un’attività non essenziale e tutti ad annuire e a dileggiare Briatore. E quello è stato un errore gigantesco (e chi scrive non ha mai sopportato Briatore e ha sempre odiato le discoteche), perché una volta stabilito il principio del “non essenziale” è ovvio che a cascata si può dichiarare non essenziale praticamente ogni aspetto della nostra vita che non riguardi il mero nutrimento e il ricovero in un ospedale.
Ecco allora che non essenziale diventa lo sport, e pazienza se la ginnastica per gli anziani sia un importantissimo argine per la prevenzione di molte malattie e per i giovani garanzia di corretto sviluppo psicofisico, oltreché un settore che impiega migliaia di lavoratori.
Non essenziale diventa ovviamente la cultura, per cui la scuola ma anche tutte le attività artistiche: forse che non si può vivere anche stando a casa a vedere netflix? Chi se ne frega che il teatro sia chiuso, che non si possa più andare a un cinema o ad ascoltare un concerto, mica si muore di fame (noi, perché al contrario tutti i lavoratori del settore magari qualche problema in più lo hanno).
Non essenziale poi sono i ristoranti, i bar, i pub, popolati come sono di giovinastri dediti alla “movida”, e pazienza che dietro alle “birrette” ci siano migliaia di lavoratori.
E questo vale per ogni attività commerciale.
Ed è particolarmente triste, ma non sorprendente, che a sposare questa ideologia siano soprattutto persone appartenenti alla vecchia sinistra. Non sorprendente per due motivi: il primo è che oramai il blocco rappresentativo della ex sinistra sia costituito da persone con stipendio garantito (per lo più statali, lavoratori garantiti o pensionati) o con beni al sole. Persone quindi per le quali stare a casa rappresenta al massimo un problema di qualità della vita, ma non certo un grandissimo problema economico.
E, come secondo punto, il fatto che molti di loro si rendono conto che, se si vogliono predisporre chiusure, si deve almeno allestire un piano di aiuti per chi non ce la fa ad andare avanti. Ma per far questo, così come per fare quegli investimenti di cui scrivevo sopra, servono soldi.
E i vincoli europei non permettono di finanziare in deficit. Questa realtà collide con la loro ideologia eurista e, pur di non rinunciarvi, preferiscono trasformarsi in odiatori seriali contro il “commerciante che piange miseria ma in fondo è un evasore”, i giovani “dediti alle discoteche e alla movida che ci hanno portato il virus”, quelli “che al parco da soli stanno senza mascherina” e in generale a colpevolizzare il singolo della situazione.
Un settore di popolazione triste e intristito di cui purtroppo fanno parte anche diversi dei miei colleghi insegnanti. E su questo, cari colleghi, è bene fare velocemente autocritica perché è proprio da qui che Conte e la maggioranza si aspettano appoggio per andare avanti.
Se davvero si crede che vada bene così d’accordo, ma allora basta col piangere quando le restrizioni ci toccano personalmente. La lamentela senza capacità critica diventa infatti un’attività intellettualmente poco onesta e piuttosto fastidiosa.