Se ne dicono tante in questi mesi di caos vaccinale. Una che va per la maggiore riguarda il presunto “successo di Israele”, grazie al record di inoculazioni targato Pfizer-BioNTech. Quale sia il reale significato di questo primato è già stato oggetto di un precedente articolo. Qui ci limitiamo ad un breve aggiornamento.
Ad oggi, con una percentuale di vaccinati del 56%, Israele continua ad avere una media di 3.519 casi al giorno. Rapportando i casi alla popolazione, è come se l’Italia ne avesse ora 24.375, mentre – ma con una vaccinazione 11 volte più bassa – ne ha in realtà 20.316. Aggiungiamo a questo che il calo dei casi in Israele, rispetto al picco del 16 gennaio, non solo è in linea con quello di altri paesi, ma è addirittura più lento e contraddittorio di quello che lo stato sionista aveva registrato dopo il precedente massimo del settembre 2019, quando dei vaccini non c’era neppure l’ombra. Mi pare che ciò basti ed avanzi per nutrire almeno qualche dubbio su un “successo” che i media vorrebbero indiscusso e soprattutto indiscutibile.
Ma perché parlare di Israele in un articolo dedicato all’India? La ragione è semplice. I cultori con l’elmetto della strategia vaccinale ci spiegano che non ci sono altre soluzioni per chiudere la partita con il virus. La loro narrazione è monocorde, a dispetto delle infinite contraddizioni che pure sono in qualche modo costretti a riconoscere: dalla reale efficacia dei vaccini, all’effetto delle varianti; dall’incertezza sulla capacità di fermare il contagio, al limitato periodo temporale della “copertura” vaccinale.
Per opposti ma convergenti motivi – in Israele l’epidemia non si placa nonostante il vaccino, in India l’emergenza è sostanzialmente finita senza alcun bisogno di ricorrervi – questi due paesi concorrono entrambi a smentire il racconto ufficiale. Ecco perché è bene occuparsene.
Il caso indiano
Veniamo allora all’India. Sia chiaro: come respingiamo il modello israeliano, qui non suggeriamo affatto di adottare quello indiano. Ma se proporlo sarebbe assurdo, ragionarci su può essere invece istruttivo. In realtà il caso indiano non è il frutto di un modello, bensì la risultante delle peculiari condizioni di quel paese: dalle pessime condizioni igieniche, all’esistenza di grandi ed affollate metropoli, fino alla bassa età media della popolazione. L’insieme di queste condizioni ha reso praticamente inutili le misure di contenimento adottate dal governo. Tutto ciò ha forse prodotto una strage? No, è avvenuto l’esatto contrario. E questa smentita indiana agita assai gli stessi media mainstream impegnati a sostenere la narrazione dominante.
Lo scorso 29 gennaio ha iniziato ad occuparsene il Financial Times, ripreso in Italia da Il Fatto Quotidiano del 2 febbraio. Ci sono tornati poi sopra il Riformista del 16 febbraio ed il Corriere della Sera del 26. Tutti in qualche modo stupiti dai dati indiani e dal loro evidente significato.
Ma quali sono questi dati? Questa la sintesi del Fatto:
«Un calo progressivo e sistematico di morti e contagi da inizio anno, così come di ricoveri in terapia intensiva. Il trend della pandemia in India – paese da 1,3 miliardi di abitanti secondo solo agli Stati Uniti per numero di casi, a oggi più di 10,8 milioni – suggerisce che alcune aree del Paese stiano andando verso l’immunità di gregge».
Altrettanto netto il Riformista:
«Quando in Italia iniziava a propagare la pandemia c’era un paese che era stato dato per “spacciato” con 100mila contagi al giorno di Covid. Parliamo dell’India, uno dei paesi più popolosi al mondo e dove si sa, le condizioni igienico sanitarie non sono mai state delle migliori. Eppure quel paese dall’altra parte del mondo, senza far nulla, sta uscendo dall’emergenza».
Da notare il “senza far nulla”: criminali questi indiani, come si permettono?
Con un pezzo dal titolo assai problematico – India, il rebus della curva: poca prevenzione ma i contagi restano bassi – un richiamo al rigore viene dal solerte Corriere:
«Il numero di casi è crollato, come quello dei morti, senza bisogno di una vaccinazione di massa (orrore, orrore, triplo orrore!), ciò ha un po’ rilassato, e da qualche giorno c’è un piccolo gradino verso l’alto». Speriamo salga ancora, sembra dire il giornalone di Milano…
Ad ogni modo, lo stupore un po’ indispettito dei nostri inviati al fronte (ogni riferimento a Burioni è tutt’altro che casuale) non riesce a nascondere i fatti. In particolare, quello che proprio non si può celare è che il calo dei casi è strettamente correlato all’immunità naturale, con relativo sviluppo degli anticorpi, raggiunta da buona parte della popolazione indiana, evidentemente già venuta a contatto (e senza troppi danni!) col virus.
A tal proposito gli articoli citati riportano dati davvero eclatanti e coincidenti tra loro. Scrive ad esempio il Fatto:
«A dare un’indicazione importante sull’ipotesi dell’immunità di gregge sono i test sierologici effettuati a Delhi, Mumbai e Pune, città da milioni di abitanti, da cui è emerso che “più della metà dei residenti è già stata esposta al virus”. Addirittura, aggiunge Ft, nello stato del Karnataka che ha oltre 60 milioni di abitanti, ad agosto 2020 i contagi erano stati in tutto 31 milioni: colpita dal virus il 44% della popolazione rurale e il 54% di quella urbana».
A conferma del significato del caso indiano ci sono poi i dati che vengono dal Kerala. Scrive sempre il Fatto:
«Paradossalmente, chi sta osservando una maggiore insorgenza di casi è lo stato del Kerala, ovvero quello che inizialmente si era più attivato per il controllo del virus».
Dunque, per quanto non voluto, il fatto che il virus abbia circolato alla grande, migliora di molto le prospettive dell’India sulla fine dell’epidemia. Ora qualcuno potrebbe pensare che questa circolazione abbia però prodotto un massacro. Abbiamo già detto che non è così, ma vediamolo con le cifre di worldometers.
In India, il tasso ufficiale di mortalità (morti Covid per milione di abitanti) è 14 volte più basso che in Italia (114 contro 1.657) e 16 volte più basso (114 contro 1.828) rispetto ai vecchi colonialisti inglesi. Morti ce ne sono stati, ma assai meno che nei paesi dove si è chiuso praticamente tutto. Eh, l’efficacia dei lockdown…
Conclusioni
Come abbiamo già scritto, le differenze tra l’India e l’Europa sono abissali. Non tenerne conto sarebbe perciò un grossolano errore. Ma un errore ancora più grave sarebbe quello di non vedere cosa ci insegna l’India, la sua prospettiva di un’uscita più rapida dall’epidemia, unita ad un tasso di mortalità enormemente più basso.
Almeno tre le considerazioni che si impongono.
In primo luogo, è ragionevole pensare che ciò che vale per l’India valga probabilmente anche per il grosso del Terzo Mondo. Ed il modesto sviluppo del Covid in Africa sembra confermarcelo. Bill Gates si dia dunque una calmata, che il continente nero può fare volentieri a meno dei suoi vaccini.
In secondo luogo, lo straordinario risultato dell’India è dovuto almeno in parte ad un’età media molto bassa, dove gli over 65 sono solo il 6% della popolazione e gli under 25 arrivano invece al 50%. Bene, ma se è qui la ragione della bassa mortalità, questa banale osservazione ci fa capire quale sia veramente la fascia di popolazione da proteggere. Questa considerazione dovrebbe valere anche da noi, suggerendo misure mirate, opposte al confinamento generalizzato fin qui perseguito.
In terzo luogo, e questo è il punto più importante, l’India ci conferma in maniera plateale come il ricorso ai lockdown variamente declinati sia non solo inutile, ma probabilmente dannoso. Un modo per non venirne più fuori. Ma forse è proprio questo che si vuole…