Andando oltre il dibattito mediatico relativo alla gestione della pandemia, ancora paralizzato dalle diatribe sull’efficacia dei vaccini e sull’ostilità reciproca tra le fazioni dei detrattori e dei convinti sostenitori, proviamo ad interrogarci su quello che non si è fatto e si sarebbe dovuto fare, spingendoci anche su considerazioni che esulano dall’aspetto strettamente sanitario per spingersi sul terreno economico.
Risulta evidente che l’attuale governo ha incentrato la propria strategia unicamente sull’aspetto vaccinale.
Ad oggi emerge nitidamente come tale approccio al problema pandemico sia stato fallimentare.
Sebbene il governo continui ad accanirsi con i renitenti al vaccino, inscenando un’autentica caccia alle streghe ed aumentando la platea degli obbligati per legge, i contagi sono di nuovo esplosi, le attività economiche sono soggette a nuove restrizioni ed il paese è nel caos più totale.
Non vogliamo negare che i tassi di occupazione delle terapie intensive siano calati rispetto al 2020, ma non è chiaro se questo sia inconfutabilmente collegato all’efficacia dei sieri anticovid o alla mutazione del virus che sta evolvendo verso forme meno pericolose, sebbene pur sempre molto contagiose.
E’ un fatto che in Spagna l’affezione da covid è stata declassata a normale epidemia influenzale e l’Inghilterra ha inaugurato il nuovo anno con un rifiuto totale ad ogni forma di green pass, con risultati che, a livello epidemiologico, sono in tutto e per tutto paragonabili a quelli dell’Italia, che invece ha fatto scuola d’integralismo in tema di lock down e obblighi vaccinali.
Se, però, spostiamo l’attenzione al numero delle terapie intensive, ci accorgiamo che il nostro paese è rimasto ai livelli del 2019; il numero viene ampliato nei periodi di picco epidemico, attraverso la trasformazione dei reparti ordinari in terapie covid, il che provoca ritardi preoccupanti nell’erogazione delle prestazioni ordinarie. Ciò è dovuto all’endemica carenza di personale che si registra da anni nella sanità italiana. Prima della pandemia mancavano all’appello circa 35.000 infermieri e 10.000 medici e le assunzioni durante il periodo pandemico sono state appena sufficienti alla copertura del turnover.
Chi lavora in sanità sa bene che esiste un’emergenza ormai divenuta una costante dell’ultimo decennio, relativa alla difficoltà di reperire medici anestesisti e questo trend si sta ormai allargando alle altre specializzazioni.
Eppure le facoltà di medicina rimangono inspiegabilmente a numero chiuso, mentre contemporaneamente si stanno aprendo le porte degli ospedali agli specializzandi come estremo tentativo di tamponare il problema.
Tale inanità dei governi degli ultimi decenni, a cui l’attuale aggiunge addirittura un’ottusa perseveranza, è ancor più colpevole se considerata alla luce dei tassi di disoccupazione italiani.
Il tasso di mancata partecipazione al lavoro (per questa nozione ci rifacciamo ai criteri proposti dalla Fondazione Di Vittorio) nel 2021 ha superato il 20%.
Il tasso di disoccupazione giovanile, secondo i dati ISTAT, ha superato il 29%.
Venendo alle politiche economiche che il governo Draghi ha messo in atto, il nostro giudizio non può essere meno impietoso.
L’ultima manovra finanziaria si attesta sui 30 miliardi, una cifra che è addirittura al ribasso sulla media degli ultimi vent’anni, quando però non ci eravamo dovuti confrontare con una sciagura di dimensioni mondiali come quella della pandemia.
Le misure intorno a cui si snoda sono un piccolo manuale del neoliberista, tutte orientate ad attivare la spesa privata attraverso un nugolo mal coordinato di incentivi e sgravi sull’investimento privato, unitamente a prestiti agevolati che vanno ad incentivare e garantire le banche private anziché l’investitore.
Gli investimenti strutturali diretti da parte dello Stato in ricerca e sviluppo sono assenti persino in quei settori della green economy e della digitalizzazione che pure dovrebbero rappresentare i punti cardine del PNRR.
Dulcis in fundo tali misure prevedono un netto peggioramento della bilancia commerciale che, seppur accettabile nel breve periodo qualora fosse accompagnata da un aumento della domanda complessiva nazionale, ci appare, invece, condannabile laddove ciò sembra fortemente collegato al ruolo strategico di importatore netto, da paese sempre più deindustrializzato, che i poteri sovranazionali sembrano aver ritagliato all’Italia.
Su questo fosco scenario grava la minaccia dell’inflazione in risalita. Da sottolineare che tale tendenza è principalmente collegata al caro materie prime, collegabile in gran parte alla crisi internazionale che ci ha fortemente penalizzato sul fronte dell’approvvigionamento del gas, oltre che in misura minore alla tassazione necessaria alla transizione ecologica.
Oltre che una sciagura per le famiglie, sulle quali si scaricherà inevitabilmente l’effetto del carovita, ciò rappresenta un’ulteriore incognita sui conti pubblici. Se da una parte, infatti, l’aumento del tasso d’inflazione può rappresentare un vantaggio rispetto al noto parametro del rapporto deficit/PIL, determinando un aumento nominale del denominatore, ciò può essere vanificato dall’effetto restrittivo sui consumi oltre che, nel medio periodo, dall’adeguamento dei tassi d’interesse sul debito.
Nel complesso, dobbiamo concludere che ci sarebbe bisogno di un radicale cambio di rotta che può essere garantito solo da una nuova classe politica portatrice di un’idea diversa di società e capace di scelte coraggiose, che rimettano lo Stato al centro dell’azione economica, anziché spettatore inerte della deriva in atto. Ci auguriamo che il risveglio sia vicino e che, anche grazie all’esperienza del governo Draghi, il popolo italiano risorga finalmente vaccinato contro le fascinazioni di salvatori farlocchi.
Nessuna “inanita’”: LA CRISI PANDEMICA PORTA A COMPIMENTO 75 ANNI DI POLITICA DELLE ELITE ANGLOSASSONI, TEDESCHE E FRANCESI CONTRO L’ITALIA. E’ SOLO IL COMPIMENTO FINALE DELLA GUERRA FREDDA – E AL CONTEMPO INIZIA UNA NUOVA GUERRA: CONTRO IL POPOLO ITALIANO, CONTRO IL POPOLO RUSSO E CONTRO QUELLO CINESE.