Il nostro mondo psichico, individuale e collettivo, spesso si avvolge di false certezze. La coerenza e la razionalità non sono certo i punti di forza dell’uomo occidentale. Di conseguenza, anche l’uso disinvolto che facciamo dei simboli rivela la nostra mala fede, la nostra cattiva coscienza.
Il coraggioso mondo nuovo nel quale viviamo, nasce dalla cancellazione di una linea. O se preferite, un muro. Insieme di mattoni, che a sua volta rappresentava il confine invalicabile fra due mondi. Da quella notte fra il 9 e il 10 novembre del 1989, il mondo ha vissuto un’era di progresso e di sviluppo. Così ci raccontiamo, davanti ai focolari catodici.
Il 1989 è molto più simile, nella realtà, al 476 D.C. L’anno delle invasioni barbariche. Solo che, ci piaccia o meno, i moderni barbari hanno le nostre fattezze.
Pensiamo all’aggressione subita dalla Serbia nel 1999.
Vennero colpiti diversi siti in cui si trovavano civili inermi, ospedali, e la sede della televisione di stato. Tutto questo, grazie alla gentile concessione delle basi militari Nato presenti sul territorio italiano.
Il 1999 è anche l’anno che segna la fine del declino russo. Risale ad allora, infatti, l’ascesa al potere di Vladimir Putin. Con l’uscita di scena dello sciagurato Eltsin, uomo di paglia dedito più al bere che agli affari di Stato, la Russia riprese il cammino, pur faticoso, che l’ha riportata ad essere oggi una potenza mondiale.
Nel riaffermare la sovranità e l’indipendenza del popolo russo dal giogo statunitense, Putin ha scelto di sottrarsi al ruolo umiliante di governatore di una colonia, ma così facendo è tornato ben presto nel mirino propagandistico e militare dell’Alleanza Atlantica. Anno dopo anno, cresce il numero dei paesi dell’ex Patto di Varsavia che entrano nel cono d’ombra della Nato, in totale spregio della promessa fatta da Bush senior a Gorbacev nel 1991 “La Nato non passerà mai il fiume Elba”.
Nel 2014, è stata la volta dell’Ucraina di sperimentare sulla propria pelle la volontà di dominio degli Stati Uniti, che si è concretizzata con la tecnica della cosiddetta “rivoluzione colorata”.
Circa un anno prima dei fatti in questione, nel 2013, il presidente ucraino Yanukovyc aveva preso alcune decisioni a livello legislativo, di stampo neoliberista. Piazza Maidan venne occupata dalla protesta di alcuni partiti di opposizione, come accade fisiologicamente in qualsiasi Paese democratico. In quella particolare occasione, i media occidentali non diedero alcun risalto alla notizia. L’anno successivo invece, le telecamere delle televisioni d’Occidente erano tutte lì, in piazza Maidan, a commuovere il pubblico con la falsa narrazione di un paese desideroso di diritti civili e libertà.
Nella realtà, la piazza vedeva l’inquietante presenza di cecchini determinati a sparare anche sulle forze dell’ordine. Vedeva la presenza di esponenti di forze neonaziste come Pravy Sektor, responsabili nel maggio di quell’anno della strage presso la Casa dei sindacati a Odessa.
Vedeva, infine, l’indebita e ingombrante presenza di membri dell’establishment politico a stelle e strisce, entusiasti nel fomentare i disordini e nel promettere l’aiuto dell’amico americano.
Da allora l’Ucraina ha visto la propria vita sociale e politica precipitare nella confusione, in uno stato di guerra civile latente, a intensità più o meno alta a seconda dei periodi.
Due sono i fattori che hanno spinto Vladimir Putin all’azione bellica. Prima di tutto, lo stato di discriminazione in cui vive in Ucraina la minoranza russa, tutt’altro che esigua (circa il 40% del totale). Secondo e decisivo fattore, la volontà del ceto politico Ucraino, ribadita dal presidente Volodymyr Zelens’kyj non più tardi di tre giorni or sono, di fare entrare l’Ucraina nella Nato.
Di certo, è impresa ostica fare comprendere questa decisione di Putin, dettata dal coraggio e dalla dignità, all’opinione pubblica europea, e a quella italiana in particolare. Nei discorsi di molti nostri concittadini, appartenenti alla maggioranza silenziosa che ha accettato di farsi complice dell’instaurarsi della dittatura tecnosanitaria, si nota l’assenza di un limite, di una linea rossa , di un ultimo baluardo fatto del rispetto di sé.
È capitato a molti di noi di sentire parenti e amici giurare che sì, erano disposti a vaccinarsi, pur fra mille dubbi, ma mai e poi mai avrebbero permesso di fare vaccinare i propri figli. Qualche mese più tardi, tale fiera intenzione è già dimenticata, e tutta la famiglia, adulti e piccini, si è felicemente adeguata ai voleri del regime. In altre parole, non c’è misura draconiana e liberticida, nessuna restrizione, per quanto drammatica e odiosa, che possa davvero destare scandalo nella maggioranza. Ci si adegua in continuazione a quanto deciso in alto loco, l’asticella dei diritti, propri e altrui, viene continuamente abbassata.
In questo quadro desolante, l’idea che un capo di stato decida di rompere l’accerchiamento ideologico e militare, per andar all’attacco, può sembrare astrusa, semplicemente incomprensibile, per i molti che hanno scelto di non guardarsi allo specchio, per il timore di non riconoscersi più, e non solo a causa del viso nascosto dall’onnipresente mascherina.
La Storia procede inesorabile nel suo cammino fatto (anche) di lutti e di eventi sanguinosi, e non si cura certo del chiacchiericcio incessante degli ipocriti.
Più che di ipocriti, che qualche residua capacità di giudizio la mantengono come dice il nome, si deve parlare di cognitivamente deprivati. Menti perdute. Risultato di una operazione di Psy Op durata decenni. Ormai incapaci di vedere le cinque dita della mano, prontissimi anzi a giurare senza sforzo alcuno che sono quattro. Un sintomo: i livelli demenziali raggiunti da programmi TV di massa tipo quello che si basa sull’indovinate l’età di un soggetto sconosciuto. Fa impazzire. Come riconquistare queste menti? Temo non ci sia più nulla da fare.