Assediata da “feste” di ogni tipo, anche quella del gatto, si celebrerà a giorni la festa della donna. Non serve più ripetere per la millesima volta quanto sia ormai stucchevole celebrare l’8 marzo con profluvi di mimose, frasi, sentenze estrapolate da questo o quell’autore o autrice, riscoperto per occasione ed ignoto ai più. E’, credo, sentire condiviso da tutti. Almeno lo spero, perché di questi tempi scommettere sul discernimento della gente è rischioso.
Come un dejà vu ci saranno eventi patrocinati da comuni, associazioni femminili e/o femministe, interventi di personaggi più o meno famosi, che con aria grave arriveranno alla stessa identica conclusione che: la donna va valorizzata di più, la questione femminile è ancora aperta, la parità di genere è ancora lontana, la politica, l’economia, la fisica, la chimica, la letteratura devono dare più spazio alle donne. E di seguito non mancheranno le testimonianze di donne che “ce l’hanno fatta” e sono astronaute, premi Nobel, docenti famose, ecc, ecc.
Ma dialetticamente dal male, si fa per dire, della sazietà dei dejà vu può nascere un bene, anche questo si fa per dire. Il bene di costringere alcuni di noi a ripensare la questione femminile e femminista, al netto di cene per sole donne. E uso il pronome “alcuni” in senso proprio: anche uomini, perché no.
Il primo dato su cui riflettere è che risulta evidente che di femminismo al singolare non si può parlare. Esistono due concezioni che si confrontano e non coincidono: quella del femminismo, spesso ideologicamente collegato al marxismo e più in generale alla questione sociale, e quella di matrice anglosassone ed apparentemente A-ideologica.
Insisto sull’avverbio “apparentemente”. In realtà questa concezione della donna è figlia di un mondo che oggi si definisce giustamente unipolare, in cui si è donne e si deve esserlo adottando i valori (o disvalori) tipici del modello occidentale ed americano. La donna con le palle, in tailleur di taglio maschile, che si incazza se non declini al femminile i sostantivi o gli aggettivi che le competono, che si offende se le prospetti una vita da donna sfigata, in famiglia, che vede in ogni gesto galante o in ogni complimento da parte di un uomo un’offesa mortale al suo ego di femmina in carriera. Senza parlare della libertà sessuale, che rivendica, sbandiera, difende per lei, i gay, i trans, i bisex. Che tra l’altro sanno benissimo lottare da soli.
E’ l’evoluzione del modello ottocentesco borghese della suffragetta inglese, il logico adattamento dell’essere donna al sistema trionfante e trionfale del mondo capitalistico: e rivendica al femminile competitività e aggressività tipiche del classismo liberale: laissez faire, laissez passer. La donna che domina nei films americani che in Italia, ormai assuefatta e prona colonia anche culturale, vanno in onda continuamente, con cicli dedicati appositamente alla WOMAN. Films con eroine cazzute, sempre o quasi appartenenti alla middle class, che sono una sorta di propaganda ad essere donne dure e pure, films utili, secondo la nostra tivù di stato e la politica, indifferentemente di destra o di sinistra (sempre che in questa melassa che è il mondo politico italico abbiano senso tali definizioni) a educare la donna italica, che si teme ancora troppo legata ad ancestrali modelli di moglie-madre-figlia, ad essere finalmente sé stessa. A liberarsi dall’oppressione del maschio dominatore, a realizzarsi. Verbo che nessuno sa, o può, o vuole spiegare…
Si può essere esponente di questo, che chiamerò primo modello di femminismo, a vari livelli: più marcato o o meno marcato.
Al tipo più deciso e combattente appartengono personaggi politici (o personagge?) come Boldrini, Bonino, e in genere le esponenti di centro-sinistra, che si sentono minacciate dal pene ovunque e comunque, spesso con esiti ridicoli: ripenso alla infausta battuta, lo scorso settembre, dell’onorevole Serracchiani, che contro la Meloni, a cui il suo vergognoso partito di inetti ha aperto la strada del governo, ha detto che con lei si tornerebbe all’immagine di una donna “che cammina un passo indietro all’uomo”, donando alla” sorella d’Italia” un assist che lei ha subito sfruttato mettendola in ridicolo, e giustamente.
Al secondo tipo di femminismo unipolare e borghese appartiene Meloni stessa, che furbescamente, ad usum delphini, (o electionis), evita di insistere sugli aspetti più estremi del potere-donna; che francamente sono poi risibili, come quello di polemizzare sull’articolo determinativo che deve accompagnare la definizione, ahimè sciagurata per noi, di lei quale Presidente del Consiglio… e riscopre la maternità, come valore assoluto: ma indubbiamente è figlia anch’essa di quel modello sdoganato dal femminismo anglosassone in cui ci si deve prima di tutto liberare sessualmente e riconoscersi sorella di tutte le sfruttate dalla virilità. Il tutto sulla base di studi biologici, certo, di valutazione rigorosamente scientifica della perfetta uguaglianza tra i sessi. Si commisera l’essere state ridotte a Eunuco-femmina, per usare la vecchia definizione di Germaine Greer, un essere inferiore perché privo del simbolo dominante del pene.
Si è arrivati in tal modo ad appiattire l’essere donna all’essere “portatrice di vagina”, ad identificare nella sfera sessuale il terreno privilegiato della rivendicazione e dello scontro con l’uomo… L’esito è quello di approdare riduttivamente a movimenti come quello nato negli Usa del “ME TOO”, la denuncia degli abusi sessuali sul lavoro partiti da attrici di Hollywood e rapidamente esteso in Europa. Nessuno nega che esista e sia fondamentale questo aspetto, ma esso è divenuto l’unico aspetto per cui combattere per molte donne, specie le più giovani. Non si capirebbe altrimenti come donne di nessun spessore intellettuale, nessuna preparazione culturale come Ferragni possano essere idolo di ragazze, e non solo, catturate dal suo “sentiti libera” stampato sulla stola di un costoso abito da sera…
Questo femminismo, borghese fino al midollo, è funzionale al sistema politico capitalistico saldamente vincente, che non a caso lo rende visibile e lo appoggia, perché innocuo politicamente, in quanto parla genericamente di una libertà della donna che annerisce e cancella le differenze sociali, politiche, culturali, etniche. Dirò di più: non vuole coglierle, fa comodo, rende falsamente “sorelle” l’operaia, se ancora si sa cos’è, la direttrice d‘industria, la nera, la bianca, la musulmana, la cristiana. Impedisce così la consapevolezza di essere anche portatrici al femminile di mondi differenti, di lottare per la loro diversità al di là della comune appartenenza allo stesso sesso. Insistere sulla sorellanza è un potente mezzo ipnotico in mano alle élites: tutte insieme si combattono le ingiustizie, ci vuole l’unità di tutte per i diritti di tutte. Assolutamente fuorviante sul piano storico e politico e prima ancora culturale.
Il modello per tutte è solo ed unicamente quello occidentale; libertà identica per donne di New York e di New Delhi, queste ultime da educare o, peggio, da rieducare. Un terribile strisciante neocolonialismo femminista che sta dando i suoi frutti a scapito di miliardi di donne che non capiscono, poverine, quale sia il luminoso destino made in West dell’uguaglianza con l’uomo. Quelle che portano il velo o il burqa lo fanno sempre e solo perché costrette, sono tutte umiliate, offese, vivono disperate e dolorose esistenze nascoste; sono da liberare. In occidente e solo lì la donna può sperare un giorno vicino di essere libera, uguale, felice. Non esistono mondi felici tranne il nostro, il “giardino” di civiltà europea ed americana che un vergognoso alto esponente della Ue come Borrell ha opposto alla “giungla” del resto del mondo. Altro che razzismo.
Io non ho molto da spartire con una donna islamica. Sono femmina come lei, sono madre, ma la mia storia le mie radici, il mio parterre culturale ed ideologico è diversissimo. Non per questo migliore o superiore, però poche di noi sono disposte ad ammetterlo. Perché? Entrano in gioco fattori di diversa natura, in primis ideologico, ma anche psicologico e religioso.
Nessuna donna di formazione marxista può avallare la visione di una donna prototipo unico. La serva della gleba, l’operaia, cosa hanno in comune con la borghese o la signora di nobili ascendenti? Nulla. Il mondo valoriale e quotidiano è diversissimo. Io preferirei dire conflittuale, ma sarei tacciata di vetero comunismo. E non si dica che questo non vale più al mondo di oggi… La borghese che vive in attici di lusso, che fa vacanze a Cortina, che manda i figli nei college americani, esiste come esiste la popolana che deve faticare a casa, fuori casa e magari cercarsi il terzo lavoro se vuol mangiare. Non credo che l’avere in comune la vagina le faccia sentire sorelle e crei tra loro solidarietà.
L’emigrata che gira col velo per le nostre strade non ha solidarietà né da parte della prima né spesso da parte della seconda: è portatrice di valori e di un mondo lontano dal nostro anche se geograficamente più vicino di quello scandinavo. Un mondo che secoli di propaganda cristiana anti islamica prima e coloniale poi dipinge come selvaggio, maschilista, crudele. E se le mogli di questi selvaggi hanno il velo per forza è stato loro imposto dai feroci mariti assetati di sangue e sesso! Al solito l’ignoranza crassa della storia gioca un contributo notevole. E allora via con lo sdegno e le proteste per le donne iraniane, quelle afghane, quelle irakene, che sono vittime da liberare, magari con una bella invasione da parte del democratico occidente.
Qui si arriva al redde rationem: a saldare il femminismo unipolare con le politiche imperialistiche del democratico occidente. A fare di Nancy Pelosi o di Kamala Harris eroine che invocano giustizia per quelle povere femmine ignoranti brutalizzate atterrite, e appoggiano le mire espansionistiche di un’America lei sì terrorizzata dai mondi che non si lasciano dominare facilmente. Come La Russia, come l’India, come L’Iran, come il Sud America. Che non vogliono convertire in dollari il loro essere multietnici, multipolari, che non vogliono “subire la liberazione” di donne che a loro tempo e a loro volontà sapranno se vorranno liberarsi da sole. Come abbiamo fatto noi, fortunate femmine dell’emisfero occidentale.
Concludo con il ricordo di un testo e di un’autrice a me carissima e ormai non molto letta, Christa Wolf. Una delle voci letterarie più grandi della Germania Est, di cui fu ferma sostenitrice, ma anche voce critica. Naturalmente al momento dell’unificazione tedesca fu per questo oggetto di feroci polemiche, controversie, accuse… In uno dei suoi romanzi più noti, “Medea”, l’autrice ribalta la visione che della maga moglie e matricida Medea dà il poeta greco Euripide. Medea viene dalle barbare terre della Colchide, ha sposato l’eroe greco Giasone, gli ha dato due figli ed è giunta con lui nella civile città di Corinto. Qui Giasone la ripudia per unirsi alla figlia del re. La barbara Medea si vendica del tradimento del marito uccidendo i due figli e la figlia del re e abbandonando Corinto.
Wolf indaga le fonti antecedenti ad Euripide e scopre che la scrittura della tragedia in cui il barbaro e l’irrazionale mondo della Colchide si oppone alla civiltà del mondo greco è mera invenzione poetica, per cui Euripide venne pagato con 15 talenti dai corinzi. Una sorta di spot pubblicitario della civile città.
Wolf ribalta la tesi euripidea: Medea non può essere una crudele infanticida, portatrice come è di una cultura pacifica, ma diversa. Diversa dal modello dominante, vincente. E chi meglio di una donna guaritrice e maga può servire al potere per screditare un intero sistema valoriale che non si sottomette? Può essere il perfetto capro espiatorio? In realtà i figli sono sacrificati dai corinzi perché figli di una diversa, di una irriducibile. Medea diventa l’emblema di quel femminismo teorico di cui Wolf era militante che vede il matriarcato come non compatibile con pulsioni distruttive, violente, inteso non come dominio femminile, ma come specifico sguardo sul mondo da unire a quello maschile. In modo paritario.
Condivido quanto scritto da Floriana. Siamo femministe e continuiamo, come donne, ad essere sfruttate, sottopagate, incatenate a rigidi schemi. Ma abbiamo la festa della donna e le “influencer” che dimostrano al mondo intero, quanto siamo libere ed emancipate, in occidente! Complimenti!
come mai noi donne di una certa cultura siamo davvero sorelle? forse perché prima il cervello, poi la vagina?grazie!