«Quando la rabbia degli sfruttati e degli indebitati si riverserà in piazza allora ripenseremo a chi ci aveva avvisato».
In questi giorni si fa un gran parlare di due film, Tolo Tolo di Checco Zalone e Hammamet di Gianni Amelio con Francesco Favino.
Il primo parla di immigrazione e quindi ha scatenato il solito dibattito su chi è più sensibile e chi invece è più razzista; addirittura la polemica ha riguardato persino il posizionamento politico del comico barese e sulla dose di politicamente scorretto contenuta nel film.
Per via di questo stucchevole dibattito non l’ho (ancora) visto.
Ero invece tentato da Hammamet: intanto perché Amelio è un signor regista e quindi vedere un po’ di bel cinema non guasta, poi per la curiosità della sfida politica lanciata dal film. Confesso che però anche qui l’altrettanto prevedibile dibattito sulla figura di Craxi (ladro o statista) ha appannato la curiosità e ho saltato il giro, riservandomi di vederlo a polemiche ultimate.
Detto questo, né Tolo Tolo né Hammamet erano le pellicole in cima alla mia lista. Il film che più di tutti volevo guardare e che più di tutti dovrebbe essere guardato è Sorry, we missed you di Ken Loach.
Dovrebbe essere guardato dalla classe politica, dai sindacati, dai colleghi giornalisti (soprattutto i conduttori di talk show), dalle buonissime sardine peace and love, insomma da tutti coloro che non hanno ancora messo a fuoco il tema più devastante di tutti: la progressiva consunzione dei diritti dei lavoratori, il progressivo ritorno alla logica padronale, realizzata con l’inganno della modernità, il costante indebitamento privato per avere i soldi che non arrivano col lavoro. Sono anni che mi sgolo su questi temi e che scrivo libri, anzi proprio il mio ultimo “La Vita a Rate” si incastra al millimetro con la storia raccontata da Ken Loach: un padre di famiglia che, per realizzare il sogno di una piccola casa di proprietà, cade nella trappola della gig economy, nell’inganno del lavoro dove sei “imprenditore di te stesso” ma sei invece sotto un padrone.
Ricky è un padre di famiglia che accetta un incarico nel settore della logistica (consegna pacchi, in poche parole) e s indebita per comprare il furgone; l’acconto arriverà dalla vendita dell’auto della moglie, assistente domiciliare di persone anziane e disabili. Il padrone della società di logistica gli racconta la favola del lavoratore autonomo che più lavora più guadagna, ma non gli racconta la trappola di un lavoro dove sei controllato da un telefono satellitare, da un sistema egoista e vigliacco di valutazione del cliente e da una tabella di marcia che riporta le lancette della storia all’era dello schiavismo. Si lavora per pagare i debiti. E se non lavori sei progressivamente fuori.
Non c’è dignità, non ci sono diritti, non c’è libertà, non c’è la giusta retribuzione. C’è la spietata lotta tra forti e deboli, tra padroni e indebitati. Il film dí Ken Loach è un pugno allo stomaco, uno dei suoi. C’è l’eco dei Miserabili di Victor Hugo ma non del grido della lotta di classe collettiva. Anzi, dirla tutta questo film inchioda soprattutto la sinistra riformista (politica, sindacale e “culturale”) che, inseguendo tutti gli altri diritti, si è persa per strada i diritti fondamentali dei lavoratori. Ha smarrito il valore dello Stato come soggetto che dovrebbe garantire le persone aderendo alle spietate logiche neoliberiste dello Stato Multinazionale.
Sorry, we missed you dovrebbe accendere il più profondo dibattito su come stiamo riducendo i cittadini: da titolari di diritti (oltre che di doveri) a consumatori e utenti, per lo più ingabbiati nella trappola del debito privato. I lavoratori vengono incagliati negli abissi del ricatto per cui “se non accetti tu, troveremo un altro”, l’occupazione è diventata sinonimo di lavoro e paga sinonimo di retribuzione. I cattivi pagatori diventano schiavi (captivus in latino si traduce proprio con la parola schiavo); le sofferenze bancarie prendono il sopravvento sugli indebitati sofferenti a tal punto che cancellare le sofferenze comporta la cancellazione anche del soggetto sofferente.
Ken Loach ancora una volta ci racconta una storia dei nostri tempi. E offre al giornalismo storie vere di drammi silenziosi umiliati da un Potere che controlla il diritto di parola e di opposizione. Parlarne significa sfidare il potere finanziario che ha costruito sapientemente l’inganno. Molto più facile quindi discutere su quanto sia politicamente scorretto Checco Zalone o su quanto fosse ladro o statista Bestino Craxi.
Quando la rabbia degli sfruttati e degli indebitati si riverserà in piazza allora ripenseremo a chi ci aveva avvisato.
* Fonte: IL PARAGONE