Quale sarà il futuro del Disegno di Legge di riforma costituzionale varato dal Consiglio dei ministri il 3 novembre? E prima ancora: quale sarà il suo impatto sulla vita politica del Paese? Perché il governo Meloni si è mosso proprio adesso?
Per provare a rispondere conviene procedere in senso inverso all’ordine di formulazione di queste tre domande. Partiamo dunque dalle ragioni che hanno spinto il governo a dare il via all’annunciata (contro)riforma, che somiglia così tanto a quella tentata da Renzi quasi dieci anni fa che, se fosse una bibita, la chiameremmo Renzata di Meloni.
La mossa era annunciata, perché il presidenzialismo era nel programma elettorale della destra, perché si tratta di una vecchia bandiera di quel mondo fin dai tempi di Almirante, perché parlare di “grandi” riforme future è sempre meglio che doversi confrontare con i fallimenti politici dell’oggi.
In un certo senso l’annuncio del 3 novembre era dunque un atto obbligato, anche perché – nelle dinamiche della maggioranza parlamentare – esso è stato collegato politicamente all’attuazione del regionalismo differenziato. In altre parole, Fratelli d’Italia e Lega hanno entrambi una (contro)riforma da incassare: il presidenzialismo i primi, il regionalismo dei ricchi la seconda. Ma poiché Meloni non è certo entusiasta del regionalismo, così come Salvini non lo è di un presidenzialismo ritagliato ad immagine e somiglianza della capa del governo, ecco che i due hanno deciso di legarsi tra di loro con un patto tanto vincolante quanto potenzialmente esplosivo.
Ora, i formalisti ci faranno osservare che il progetto governativo non prevede l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, bensì il cosiddetto “premierato”. Ma, qualora andasse in porto, il premierato sarebbe in realtà una forma di presidenzialismo ben più forte di altri presidenzialismi esistenti. Bando dunque ai nominalismi, e stiamo alla sostanza.
Quando i francesi eleggono il loro presidente sanno benissimo di scegliere la persona che orienterà la vita politica del paese per 5 anni, essendo il capo del governo una figura del tutto secondaria, tant’è che da noi pochi sanno che l’attuale primo ministro francese si chiama Elisabeth Borne, mentre tutti conoscono il nome del presidente Macron, dato che è lui che comanda. Con l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, prevista dal Disegno di Legge del 3 novembre, si otterrebbe, sia pure in forma rovesciata, l’ennesimo risultato: una decisiva concentrazione dei poteri nelle mani di un’unica persona. Ovvio, dunque, che i presidenzialisti di tutte le risme siano ben felici di questo progetto.
Ma perché una proposta così semplice nei suoi contenuti è stata varata solo adesso, dopo oltre un anno di governo? E’ chiaro che qualche calcolo c’è stato. In primo luogo, si è scelto il momento di massima difficoltà della compagine meloniana, tutta intenta ad indorare la pillola di una impresentabile Legge di Bilancio, per provare a parlar d’altro. In secondo luogo, si è scelta una tempistica che porterebbe all’eventuale referendum costituzionale non prima del 2026. Insomma, a Palazzo Chigi hanno pensato che fosse meglio non correre certi rischi troppo presto, arrivandoci semmai proprio nell’ultimo scorcio della legislatura.
Come impatterà questa iniziativa di revisione costituzionale sulle vicende politiche nazionali? Poiché (Renzi docet) il referendum è per i governi una brutta bestia da domare, Meloni ha probabilmente in serbo qualche esca “aperturista” nei confronti dell’Armata Brancaleone che costituisce l’attuale opposizione parlamentare. Solo con il coinvolgimento di una parte consistente di quest’ultima, sarebbe infatti possibile il raggiungimento di quella maggioranza qualificata dei due terzi, in entrambe le camere, che eviterebbe il ricorso al voto popolare.
Quante probabilità ci sono che questa mossa possa riuscire? Nonostante la bassissima levatura della classe dirigente piddina e pentastellata, le possibilità sono piuttosto scarse. E, d’altro lato, la sola convergenza sul disegno di legge governativo da parte del litigioso duo Renzi-Calenda sarebbe ancora numericamente insufficiente.
Ma quale potrebbe essere il terreno dell’adescamento nei confronti dei Cinque Stelle e, soprattutto, del Pd? I punti decisivi del progetto meloniano sono tre, uno peggiore dell’altro: l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, la votazione su un’unica scheda (presidente, Camera e Senato), il premio di maggioranza al 55% assegnato al vincitore senza neppure l’indicazione di una soglia minima di voti che lo faccia scattare.
Concentriamoci ora sul Pd, perché è in quel campo che verrà gettata l’esca. Sul primo punto, a Piddinia City potrebbero non avere troppi problemi, dato che (sia pure in forma diversa) il modello è sempre quello del “Sindaco d’Italia” di renziana memoria. Certo, adesso Renzi ha traslocato altrove, ma la forma mentis lì dominante è ancora quella.
L’unica scheda elettorale è un pasticcio di portata cosmica, ma non sarà quello a farli tirare indietro. Il vero nodo è la legge elettorale. I piddini sono sempre stati per il maggioritario, e dunque il 55% dei seggi al vincitore per loro non sarà un problema. Ma con quale meccanismo far scattare quel premio? Ai piddini converrebbe il ballottaggio, alla destra il turno unico. Ma per il Pd il turno unico sarebbe un autentico suicidio impossibile da accettare. L’adescamento meloniano potrebbe dunque funzionare solo a condizione che la destra sia disposta a concedere il ballottaggio: poco probabile, dunque praticamente impossibile il raggiungimento della maggioranza qualificata dei due terzi.
A quel punto il percorso della (contro)riforma costituzionale sarebbe segnato, ed il governo si troverebbe davanti ad un bivio: od andare avanti da solo fino al referendum, o mettere il progetto su un binario morto scaricandone la colpa sull’opposizione. Nel secondo caso una sconfitta politica evidente, ma tutta giocata all’interno del Palazzo; nel primo una probabile sconfitta nel referendum, che sancirebbe la fine politica del governo stesso.
Poiché il percorso della (contro)riforma sarà lungo e tortuoso, poiché quel tragitto andrà ad inserirsi in un contesto piuttosto complesso e tempestoso, pare saggio fermarsi qui con il disegno dei futuri scenari.
Quel che va detto con chiarezza è che siamo di fronte all’ennesimo tentativo di stravolgere la Costituzione del 1948, per colpire ancora più a fondo una democrazia già moribonda. Lo scopo è sempre il solito: garantire la governabilità al servizio delle oligarchie dominanti, privare il parlamento di ogni potere, escludere dalle istituzioni ogni alternativa di sistema. Presidenzialismo e maggioritario sono certo due temi non nuovi, tra l’altro trasversali all’intero sistema politico di centro-sinistra-destra, ma per la prima volta si tenta adesso di inserirli nella Costituzione repubblicana stuprandola definitivamente.
Ma almeno su questo dobbiamo essere ottimisti. Il percorso della (contro)riforma meloniana non sarà facile. E se poi si arriverà al referendum lorsignori non si facciano illusioni: la confusione nel popolo è grande, ma di “uomini soli al comando” gli italiani non ne vogliono più. E, precisazione doverosa di questi tempi, ciò vale anche per le donne…