*Volentieri pubblichiamo questo contributo di Luigi Savoca del Comitato Popolare Territoriale di Catania
Un contributo al dibattito.
Nell’affrontare questo tema la prima necessaria e preliminare considerazione che occorre formulare è il carattere assolutamente inedito della situazione che ci troviamo ad affrontare; una situazione che, al di là di alcune inevitabili analogie su singoli aspetti, nel suo complesso non ha precedenti storici ai quali riferirsi al fine di percorrere sentieri consueti e predefiniti.
In secondo luogo occorre considerare in tutta la sua pregnanza la specifica originalità del “caso italiano”, che lo differenzia anche da altri paesi europei, oltre a non renderlo in nessun modo assimilabile a quello di paesi di altri continenti (ad es. America Latina, Asia) che hanno storie e condizioni socioeconomiche totalmente differenti dalle nostre.
L’anomalia italiana, cioè del paese occidentale con il più grande e radicato partito comunista nel secondo dopoguerra, si è paradossalmente ribaltata di segno, nel senso che è proprio l’Italia il paese di quella “sinistra” (….?!) che giustamente Diego Fusaro definisce, con il linguaggio estremamente distaccato di chi appartiene ad una generazione che non ha vissuto il dramma del 1989, “la più stupida del mondo”.
Ciò ha comportato e comporta che in un paese in cui esistono una pletora di partiti ed organizzazioni che si richiamano al comunismo, accanto a cui convivono forze della sinistra “radicale” alla perenne ricerca di una denominazione conclusiva, (ovviamente si bypassa ogni commento sul più grande partito della sinistra….il PD…), si registri una totale incapacità di elaborazione politica efficace, incapacità cui si accompagna inesorabilmente l’assoluta subalternità e/o irrilevanza.
Tutto questo, come ogni cosa nel mondo, non avviene per caso, ma costituisce la conseguenza di processi economici, sociali, politici ed anche antropologici che hanno segnato profondamente l’Occidente, ed in particolare l’Italia, negli ultimi 40 anni.
Ne consegue che, a mio avviso, non si può affrontare il tema oggetto del presente contributo, senza cercare prima di delineare, seppur in maniera sintetica e sommaria, le caratteristiche specifiche della situazione attuale.
A tal riguardo si precisa che è assolutamente chiaro che i vari piani dell’analisi sono intimamente interconnessi e non si possono e devono considerare come compartimenti stagni del tutto autonomi l’uno dall’altro, tuttavia per mera comodità espositiva cercherò di tratteggiare schematicamente, e per singoli enunciati, i tratti che ritengo salienti dell’attuale situazione, rimandando quanto al contenuto ed alle argomentazioni all’ampia letteratura che ha trattato i temi in questione.
L’ECONOMIA: fine del taylorismo, globalizzazione, finanziarizzazione, liberismo.
In estrema sintesi i caratteri peculiari, sotto il profilo della struttura economica, dell’attuale fase neoliberista possono così essere sommariamente riassunti.
- La fine del paradigma produttivo fondato sulla economia di scala della grande fabbrica con tutti gli “effetti collaterali” ad essa connessi, in primo luogo della capacità della classe operaia di contrattare efficacemente salari, ritmi, condizioni di lavoro. In Italia in particolare abbiamo avuto la sconfitta epocale dei 40.000 licenziamenti della FIAT da cui è iniziato un piano inclinato segnato dalla perdita di ogni significativo potere contrattuale.
- La libera circolazione dei capitali, che si è coniugata da una parte con l’apertura all’esterno del PCC e dall’altra con il crollo dei paesi del “socialismo reale”, ha ulteriormente privato di capacità di incidere le classi subalterne e lo stato, quindi la politica, in genere. A fronte delle rivendicazioni in un determinato contesto nazionale la scelta della delocalizzazione costituisce sempre una valida alternativa per le grandi multinazionali innanzitutto.
- L’attacco ideologico/culturale alla dimensione del pubblico si è tradotto, materialmente, nella implementazione delle privatizzazioni e nella sottrazione, in particolare nel nostro paese, della leva monetaria allo Stato, vedi divorzio Tesoro/Banca d’Italia.
- Le leggi inestricabilmente connesse ai meccanismi di funzionamento del sistema capitalistico, in particolare la caduta tendenziale del saggio di profitto, unitamente al carattere “finito” del pianeta Terra, hanno indotto l’Occidente ad implementare i processi di finanziarizzazione dell’economia oltre ogni minimamente limite “ragionevole”. Nel sistema della finanza transnazionale che, in particolare nel nostro paese, schiaccia l’economia reale, tende a realizzarsi la profezia marxiana del Capitale che si erge come un Moloch al di sopra della società mortificandone i flussi vitali. Il prevalere della Finanza determina il prevalere assoluto della forma astratta del valore di scambio (di cui il denaro rappresenta l’emblema più rappresentativo) sul valore d’uso che ogni bene, pur sottoposto alla forma merce, comunque assume.
LA POLITICA
La storia italiana segna, a partire dal 1978, una spaventosa china discendente che ci ha fatti sprofondare nel baratro. I fatti salienti possono così essere schematicamente riassunti.
- Omicidio Aldo Moro- 1978
L’omicidio di Aldo Moro rappresenta la fine politica delle speranze attivate dal “trentennio glorioso” del secondo dopoguerra. Ciò è derivato dalla spietata riaffermazione della natura di colonia dell’Italia, una colonia sottomessa agli USA ma altresì combattuta nello steso tempo dai più importanti paesi europei (Gran Bretagna, Francia, Germania); e non è un caso che tutti i servizi di questi paesi abbiano messo il loro zampino in questa clamorosa operazione coperta, forse anche con la silente acquiescenza dei servizi dell’EST che per loro motivi non vedevano di buon occhio il processo di autonomizzazione nazionale del PCI. A seguito dell’omicidio Moro la classe di governo della prima repubblica è stata violentemente richiamata all’ordine ed il PCI ha visto crollare la sostenibilità ed efficacia della strategia del compromesso storico su cui Berlinguer aveva puntato tutte le carte. Non è un caso che l’ingresso dell’Italia nello SME avvenga nel 1979, che i quarantamila licenziamenti alla FIAT si verifichino nel 1980 e che il divorzio Tesoro/Banca d’Italia avvenga nel 1981, tutte battaglie perse da una sinistra ormai priva di una vera prospettiva.
- 1989- 1991: implosione dell’URSS e del PCI.
L’implosione dell’URSS ha rappresentato una vittoria epocale del neoliberismo che si è portata con sé anche il crollo dei partiti che, pur avendone preso le distanze, comunque avevano fondato geneticamente sulla vittoria della rivoluzione bolscevica la propria ragione di nascita.
In particolare nel PCI è giunto a termine un processo pluridecennale di inglobamento nel sistema, determinato anche da ragioni oggettive che stavano al fondo della “doppiezza” togliattiana, che giunge a conclusione con il “patto del garage” e la successiva svolta della Bolognina. Non essendovi nemmeno una effettiva capacità di elaborazione alternativa da parte della “nuova sinistra” postsessantottina, il cui ceto politico ha sostanzialmente fallito il compito storico di un nuovo fondamento teorico della rivoluzione in Occidente e di una riflessione adeguata sulle esperienze dei paesi a “socialismo reale”.
L’esperienza di Rifondazione si è rivelata fallimentare ed ha alla fine contribuito alla frustrazione e dispersione di forze potenzialmente rivoluzionarie. La componente comunista della sinistra è semplicemente tracollata lasciando il campo sgombero all’egemonia politica e culturale globalista e neoliberista.
- 1992/1994 Mani Pulite
Il crollo dell’URSS ha attivato il processo di riunificazione della Germania ed il conseguente patto franco-tedesco in funzione anti italiana inaugurando uno scenario in cui alla tradizionale subalternità strategica nei confronti degli USA si assommava, concorrendovi, anche una subalternità nei confronti dell’UE dominata come sopra. Per concretizzare questo obbiettivo era tuttavia necessario liquidare la classe politica della prima repubblica che, in particolare con Craxi, leader della componente socialista, mirava a tutelare un certo grado di autonomia nazionale (vedi Sigonella, politica mediterranea, ecc…) ed un modello sociale dove lo Stato svolgesse un certo ruolo importante anche nel campo dell’economia. Tale obbiettivo è stato conseguito, a “furor di popolo”, con l’operazione Mani Pulite che non a caso ha individuato proprio nel segretario del Partito Socialista il nemico pubblico numero uno. Questa operazione, che ovviamente ha registrato il “tradimento” di alcuni (vedi Amato), è stata pienamente avallata dal partito occhettiano della sinistra nella logica di proporsi come più efficiente ed adeguato soggetto politico esecutore dei voleri della grande finanza internazionale. Il termine “sinistra”, come segno determinativo prevalente di una identità politica, nasce appunto in concomitanza con la liquidazione della componente socialista ed il contestuale asservimento allo straniero franco-tedesco formato UE.
E’ appunto dagli anni ’90 che i termini “comunismo” e “socialismo” sono banditi dal lessico politicamente corretto per essere soppiantati dal termine “sinistra” che ben si presta all’aggiunta di aggettivi quali ad es. “liberal”.
Si compie così un processo di liquidazione culturale e politica di decenni di lotte e conquiste che, nel bene e nel male, erano state il frutto dell’azione politica delle forze socialiste e comuniste nel nostro paese.
2011- Colpo di Stato versus Berlusconi.
Un altro passaggio importante nel processo di subordinazione dell’Italia agli interessi stranieri è dato dall’esautoramento del governo Berlusconi nel 2011, determinato dalla parziale resistenza di tale governo allo strapotere dell’asse franco-tedesco nella UE ed unito alla velleità di recitare un ruolo anche se solo parzialmente autonomo in ambito internazionale curando gli interessi nazionali del sistema paese (vedi rapporti privilegiati con Gheddafi, Putin…).
Peraltro la vena narcisisticamente populista di Berlusconi mal si conciliava con l’adozione di misure di drastica austerità che comunque nessun governo “politico” avrebbe potuto adottare senza che i partiti di maggioranza perdessero drasticamente consenso.
E’ stata inaugurata così la stagione, a tutt’oggi in pieno svolgimento, dei “tecnici”, mirante ad oscurare le responsabilità delle forze politiche. L’esautoramento di Berlusconi ha costituito la conferma della capacità dei “mercati” di condizionare pesantemente la struttura istituzionale del paese, grazie anche al ruolo strategico svolto da una figura rappresentativa come il Presidente della Repubblica che, in questo processo di perdita di credibilità delle forze politiche, diventa strategicamente una pedina essenziale per indirizzare le politiche governative.
LA DIMENSIONE ANTROPOLOGICA
Il titolo di questa sezione esprime già in sé un giudizio sulla profonda pervasività assunta dal sistema capitalistico nell’ambito delle relazioni umane, pervasività che va ben oltre la sfera economico-sociale o anche soltanto culturale, per intaccare le stesse connotazioni ontologicamente costitutive della dimensione dell’umano.
Siamo ben oltre la denunzia di Pierpaolo Pasolini che lamentava la distruzione dell’autonomia culturale dei ceti popolari in conseguenza della mercificazione dei rapporti umani e della loro riduzione a consumo.
Nella fase della sua putrescenza il Capitale non si limita a promuovere una massificazione omologata che si accompagna alla frammentazione sociale, così da annichilire la coscienza di sé come parte di una classe, come di un popolo, di una cultura, una tradizione, un’identità sessuale, all’unica dimensione di consumatore, ma mira ancora più in profondità.
L’esito della ragione calcolistica, che in Occidente sta soppiantando integralmente il “pensiero pensante”, erigendo lo scientismo e la “Tecnica” a fattore regolativo delle nostre vite, si spinge ad oltrepassare i confini dell’umano, così come la Natura li ha definiti in millenni di storia, ridisegnando la stessa struttura genetica dell’essere umano.
La sempre maggiore invadenza dell’intelligenza artificiale, che per sua natura appare come la modalità sistemica più “efficiente” per disciplinare i rapporti economico-sociali e le relazioni umane (dagli algoritmi che predeterminano le transazioni finanziarie alle banche dati che consentono il controllo gerarchico dei nostri dati e dei nostri depositi patrimoniali infine, è storia dei nostri giorni, alle app che rendono tracciabile ogni nostro movimento) disegna un avvenire dominato dalle macchine, in cui ogni rapporto diviene astratto, virtuale e spersonalizzato in quanto mediato appunto da dispositivi tecnici. A ciò si accompagna il controllo dei nostri corpi in nome di ricorrenti situazioni emergenziali, destinate a costituire uno stato d’eccezione permanente, anche tramite la somministrazione coattiva, “per il pubblico interesse”, di farmaci e vaccini.
La biopolitica è divenuta oggi una realtà e sottrae ogni forma di autonomia e di libertà al singolo individuo, tende ad instaurarsi il regime del totalitarismo liberale che vuole imporre il pensiero unico e sradicare, in quanto ontologicamente non legittimata, ogni forma di dissenso.
In questo scenario la persona è ridotta al rango di individuo isolato dal contesto sociale, destinato a coltivare solo nella dimensione “virtuale” il rapporto con i suoi simili, succube di una deriva narcisistica che si nutre della propria frustrazione e della propria sostanziale impotenza.
L’affermazione marxiana che qualifica il capitalismo come un sistema che distrugge il legame sociale si invera di contenuti che solo pochi decenni fa avremmo associato ad immaginari futuri fantascientifici.
Questi sommari elementi descrittivi delineano una situazione integralmente nuova, in cui fattori economici, sociali, politici, culturali e psicologici concorrono in maniera convergente a costruire una società ridotta al rango di moltitudine indifferenziata, facile bersaglio delle iniziative performatrici di ristrettissimi gruppi dominanti, che peraltro si sottraggono strategicamente alla percezione della generalità degli individui, preferendo agire utilizzando quali strumenti burattini, più o meno consapevoli della loro funzione, di cui governano abilmente i fili.
L’avanzare di questo processo non discende esclusivamente, ed in maniera deterministicamente meccanica, dalla logica interna del Capitale, che pure tende ontologicamente a questo esito, ma costituisce altresì il frutto di una precisa strategia assunta dai gruppi dominanti dell’Occidente.
Se in generale vale il principio per cui “le idee dominanti sono quelle della classe dominante”, non v’è dubbio che possiamo datare l’offensiva sullo specifico antropologico, che assume il terreno della psiche umana, già all’indomani del secondo dopoguerra.
Non è un mistero per nessuno che i “liberatori” americani pensarono bene di trasferire negli USA gli scienziati nazisti per appropriarsi, tra l’altro, anche delle conoscenze scientifiche che gli stessi avevano coltivato nei campi di sterminio.
Da tale rapporto nacque, già nei primi anni ’50, un progetto mirante a sperimentare sistemi di condizionamento mentale da utilizzare quale efficace strumento nell’attività dei servizi anche per il controllo delle filiere di comando dei paesi “alleati”, in primis l’Italia (vedasi la denunzia di Paolo Ferraro).
L’esito disastroso, per gli USA, della guerra del Viet-Nam indusse la comprensione della rilevanza strategica della Comunicazione nel conflitto militare, politico ed economico. I gruppi dirigenti negli USA compresero che la guerra era stata persa, prima ancora che su quello militare, sul terreno dell’egemonia culturale e dell’immaginario simbolico; le fotografie dei bambini bruciati dal napalm o della ragazzina che imbraccia il fucile nei confronti del soldato gigante americano suo prigioniero hanno prodotto più danni di mille carri armati in quanto hanno schierato le giovani generazioni occidentali degli anni ’60 contro l’imperialismo; in ultimo l’immagine di Allende che difende il palazzo della Moneda imbracciando la mitragliatrice resteranno scolpite nel cuore e nella mente di centinaia di milioni di persone anche per i prossimi decenni (almeno).
Per farla breve il potere dominante di matrice USA, sviluppando alle estreme conseguenze la corrente psicosociologica del “comportamentismo”, ha lanciato una pluridecennale campagna di comunicazione basata non solo sulla falsificazione sistematica della realtà, grazie al controllo quasi totale del sistema mediatico meanstream (una bugia ripetuta un milione di volte diventa una verità…) in stile Orwelliano; oggi siamo molto oltre, il livello propagandistico più insidioso è quello subliminale che proietta simboli sull’inconscio bypassando la mediazione della dimensione razionale ed è questo probabilmente il motivo per cui anche di fronte all’evidenza dei fatti ampi settori dell’opinione pubblica si “rifiutano” di vedere la realtà.
Si tratta di un potere cinico e spietato pronto ad utilizzare appieno le tecniche di condizionamento della sfera emotiva per provocare le reazioni attese così come evidenziato dalla pratica della “schok economy” oggi applicata anche sul terreno delle relazioni sociali.
Al di là di ogni considerazione sull’origine del virus e sulla (sospetta) predeterminazione della pandemia COVID, non v’è chi non veda che, come minimo, il potere utilizza il virus per fare accettare dalla popolazione la diffusione di dispositivi tecnici di controllo sociale (app, ecc…), di controllo dei corpi (vaccini obbligatori…), di una dinamica devastante di “distanziamento sociale” che mira ad eliminare il legame sociale, il senso della forza dell’unione, la solidarietà in genere, per spingere ad individuare nell’altro un nemico, un untore potenziale diffusore di morte.
In questo contesto la sfera “virtuale”, celebrata dalla diffusione dei concerti casalinghi e delle riunioni a distanza, rappresenta il fulgido futuro verso cui viene instradata l’umanità.
La strada che ci separa dal sesso virtuale e la generalizzazione dei i figli in provetta si accorcia sempre più.
In conclusione questo processo sta intaccando le modalità che per millenni hanno presieduto alla relazione fra le persone prospettando un futuro in cui il modo di sentire stesso dell’essere umano sarà modificato e realizzando così una rottura radicale anche del modello antropologico.
QUALE PARTITO OGGI NELL’ITALIA DEL 2020?
Premessi i superiori elementi analitici arriviamo al punto della questione, tematizzato nel titolo di questo paragrafo.
Senza volere girarci attorno, il dilemma nei suoi termini essenziali può essere riassunto così:
- vi è assoluto bisogno di un soggetto politico organizzato che costituisca il motore essenziale di un fronte di forze più ampio, con cui allearsi anche tatticamente, per condurre vittoriosamente una battaglia titanica come quella dell’Uscita dalla UE, con tutti i prevedibili sconvolgimenti del caso;
- oggi, in Italia, le forze, peraltro debolissime e frammentate, che derivano dalla tradizione comunista e socialista (bypasso il termine “sinistra” oramai elemento di confusione ideologica e di discredito rispetto ampi settori sociali) non sono nelle condizioni, oggettive e soggettive, di costituire un partito che svolga la funzione indicata al punto a).
La fondatezza delle due affermazioni superiori mi sembra di tale manifesta evidenza da non richiedere il sostegno di argomentazioni troppo articolate.
Che una battaglia come quella dell’Uscita dalla UE determini lo sconvolgimento di equilibri geopolitici saldissimamente radicati non solo in Europa, bensì in ambito planetario, è in re ipsa, con tutto l’inevitabile corollario in termini di “interventi” degli apparati di ogni ordine a grado per contrastare tale prospettiva.
E’ assolutamente impensabile condurre una battaglia simile con un’armata brancaleone frastagliata e divisa, condizionata da narcisismi e lotta per leadership.
Ci vuole un Partito forte e coeso, ovviamente democratico e partecipato, i cui meccanismi di funzionamento dovranno essere creativamente sperimentati, in grado di costituire un sicuro e saldo punto di riferimento per vasti settori sociali.
Non comprendere una verità così elementare significa essere fuori dalla realtà.
E’ altrettanto evidente che questo partito non può avere una immediata ed esclusiva caratterizzazione di tipo socialista, che si riallacci alla tradizione storica del movimento operaio nel nostro paese.
I motivi sono molteplici e scaturiscono dall’analisi sommariamente sopra delineata.
Sul piano sociale dobbiamo registrare che la classe operaia italiana ha subito una sconfitta storica ed oggi si trova in una condizione esclusivamente e disperatamente difensiva, per cui, almeno in questa fase (soprassiedo sul dibattito inerente la “incapacità sistemica intramodale” asserita da Costanzo Preve) non può svolgere alcuna funzione dirigente rispetto altri strati sociali, fermo restando che è assolutamente essenziale la sua partecipazione al fronte di lotta comune.
Sul piano politico le svariate organizzazioni della sinistra “radicale” (tra cui dovrebbe annoverarsi LEU più almeno 8 partiti comunisti più una miriade di collettivi e organizzazioni anche di area socialista) costituiscono sostanzialmente un fastidioso ma defatigante ostacolo alla costruzione di un partito autenticamente rivoluzionario e socialista in quanto da una parte cristallizzano su prospettive senza sbocco la gran parte delle pochissime forze residue, dall’altro finiscono col togliere ogni credibilità e capacità di attrazione ad una proposta politica dichiaratamente circoscritta alla tradizione politica “di sinistra” del nostro paese.
Per usare una metafora è molto più semplice e meno oneroso costruire un edificio dalle fondamenta, su un terreno libero, che ricostruirlo sulle macerie di una casa crollata, nella qual ipotesi si dovrà preventivamente svolgersi un’attività di smaltimento dei rifiuti nella fattispecie anche tossici.
Mi sembra opportuno infine aggiungere che l’elemento di maggior resistenza ed avversione alla deriva antropologica indotta dal sistema oligofinanziario attuale non proviene dalla classe operaia e dagli strati popolari, spesso maggiormente soggetti al condizionamento psicologico esercitato dalla martellante propaganda del mainstream, bensì da elementi dei “ceti medi” dove più radicata è l’assertività verso l’autonomia individuale e la capacità di pensiero critico.
E’ chiaro che ci troviamo di fronte ad un paradosso, ma di paradossi è piena la storia: sotto il profilo oggettivo assistiamo al declino dell’Occidente e ad una crisi profonda del sistema capitalistico che sembra giunto alla sua fase terminale (si spera di non essere smentiti dai fatti), dall’altro difetta totalmente l’elemento soggettivo senza il quale ogni battaglia per il socialismo non può essere vinta.
Ed allora quale partito costruire?
La risposta, a questo punto, appare obbligata: in Italia, anno 2020, siamo nella fase in cui è all’ordine del giorno la costruzione di un partito “nazional-populista”, come lo definisce Carlo Formenti, al cui interno può efficacemente strutturarsi una componente di orientamento esplicitamente socialista che avrà l’ambizione di esercitare l’egemonia nei processi economico-sociali connessi alla lotta per Italexit.
Questa mi sembra realisticamente la scommessa per l’immediato futuro.
Ciò comporta alcuni corollari nonché la definizione di alcuni traguardi.
Il primo evidente corollario è che nel partito “nazional-populista” dovremo convivere con forze sociali, culturali e politiche di provenienza diversa da quella tradizionale del movimento operaio.
Và detto che queste forze a loro volta sono entrate profondamente in crisi in conseguenza della deriva autoritaria del globalismo finanzcapitalistico, ed hanno quindi perso i loro tradizionali punti di riferimento e le loro consolidate certezze.
Questo processo fa sì che si aprano nuovi e più ampi spazi per l’esercizio dell’egemonia da parte delle forze di ispirazione socialista, che hanno quindi potenzialmente tutti i titoli per svolgere un ruolo politicamente centrale nella battaglia in corso.
Il “caso Paragone” è emblematico di questa situazione, trattandosi di un soggetto proveniente politicamente dall’area leghista, la cui essenziale base sociale di riferimento è il popolo delle partite IVA e delle piccole imprese, che tuttavia si trova ad essere spinto dai fatti a fare proprie anche le istanze dei ceti popolari in una logica costituzionale “socialista”, e ciò in quanto ha individuato il nemico comune, contro cui alleare un ampio schieramento di forze, nella finanza internazionale e nelle multinazionali.
In questa logica se Paragone non è il “nostro” leader, può comunque svolgere una importante funzione aggregativa quale frontman di sicura efficacia.
Resta comunque impregiudicato un compito fondamentale che dovrà essere necessariamente assolto da parte di quelle forze che assumono esplicitamente la prospettiva del socialismo.
Mi riferisco, innanzitutto, alla definizione teorica e politica di alcune questioni strategiche che non possono essere ignorate.
Una prima questione riguarda una riflessione comune sulle esperienze del “socialismo realizzato”, sia con riferimento ai paesi del blocco URSS che in particolare all’esperienza cinese.
Se ritengo sia ormai un dato acquisito il carattere “nazionale” di ogni processo di costruzione del socialismo, è altrettanto vero che il crollo dell’URSS, pregno di significati simbolici, impone di fare i conti con la storia del movimento operaio anche nei suoi momenti più bui, perché solo così si potrà ridsu una questione fondamentale:are piena credibilità ad una prospettiva anticapitalista e socialista in Occidente.
Inoltre il ruolo sempre più centrale della Cina nel mondo, non solo in termini geopolitici connessi alla sua potenza economica emergente, ma anche connesso con l’ambizione di fornire una “alternativa di sistema”, un modello sociale praticabile incentrato sul ruolo primario dello Stato, pone delicate ed ineludibili questioni inerenti il rapporto fra apparati politico-burocratici e società civile, di cui la vicenda del 5G costituisce un esempio emblematico.
Un altro tema a mio avviso centrale è la questione della frattura del movimento operaio fra componente socialista e componente comunista a seguito della rivoluzione russa del 1917.
Trascorso (quasi) un secolo dal congresso di Livorno di fondazione del Pcd’I dobbiamo interrogarci su una questione fondamentale: gli sviluppi storici successivi a quell’evento giustificano, anche sul piano teorico, una partizione fra “socialisti” e “comunisti” o invece dobbiamo ricordarci che la rivoluzione bolscevica l’hanno fatta i ….. socialdemocratici.
Non si tratta di una questione meramente organizzativa e pragmatica, dettata dalla complessiva debolezza delle forze, bensì di un’importante opera di riflessione sulla esperienza della sinistra italiana in particolare, necessaria se si vuole attuare una solida e fondata ricomposizione delle diverse tradizioni politiche.
Non è a mio avviso lecito e utile, in questa fase, precostituire astrattamente le forme ed i tempi del processo politico e di riflessione dianzi delineato, al di là delle nostre intenzioni forme e tempi saranno profondamente influenzati dal concreto evolversi degli eventi.
Appare comunque chiaro il fatto che la costruzione di un partito “nazional-populista” è un compito dell’immediato futuro al quale non possiamo sottrarci e che, per la sua prospettiva vincente, necessita del contributo delle forze più autenticamente consapevoli della crisi strutturale del sistema capitalistico.
Catania Aprile 2020
Luigi Savoca
Complimenti per il grande lavoro di sintesi, del quale condivido sicuramente l’esigenza di un nuovo soggetto politico, sulla quale sto incentrando una nuova serie di articoli, appunto su un “partito ideale”.
Come umile contributo all’individuazione del “terreno libero” sul quale costruire, evocato nell’articolo, propongo appunto la sezione del mio blog in cui sto mettendo la nuova serie, giunta al terzo appuntamento:
https://www.massimofranceschiniblog.it/category/un-partito-ideale/