«Chi intende battersi per fermare l’impoverimento delle classi popolari, ed il declino complessivo del nostro Paese, deve sapere che tutto ciò sarà possibile solo ponendo fine alla guerra contro la Russia. Scorciatoie non ce ne sono».
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Un milione e trecentomila proiettili di artiglieria da 155 millimetri, questo il regalo a Zelesky che sta svuotando gli arsenali della Nato. Ma la guerra non è fatta solo di bombe. Quella che l’Alleanza atlantica ha scatenato contro la Russia, inducendola ad entrare in Ucraina, è anche una guerra economica centrata sui flussi dei combustibili fossili. Erigere un muro energetico tra Russia ed Unione Europea, ed ancor più tra Russia e Germania, era uno degli scopi fondamentali di Washington. Questo obiettivo è stato raggiunto, ma la partita è tutt’altro che chiusa.
Certo, l’Ue ha supinamente accettato la linea americana, auto-infliggendosi così un enorme danno economico, ma la Russia non è affatto tracollata, anzi. Proprio per questo sono arrivate le nuove sanzioni occidentali. Che è come dire che la guerra deve continuare con tutti i mezzi a disposizione. L’idea è sempre la stessa: prima o poi la testa di Putin dovrà saltare, in modo da spolparsi il paese più grande del mondo per impossessarsi delle sue enormi risorse.
Da ieri, lunedì 5 dicembre, le importazioni di petrolio russo sono vietate in tutta l’Unione europea, con l’eccezione dell’Ungheria. Sempre da ieri è entrato in vigore un tetto al prezzo di quello stesso greggio bandito dal sacro territorio dell’Unione. Che senso ha imporre un tetto ad una merce che non si potrà più acquistare? Ovviamente un senso c’è: vietate le esportazioni verso l’Ue si vorrebbero così colpire anche quelle verso il resto del mondo, che alle sanzioni Nato-G7-Ue non ha proprio intenzione di aderire.
Il meccanismo è semplice. Poiché il petrolio russo diretto verso l’Asia (Cina ed India in particolare) dovrà almeno in parte viaggiare su petroliere noleggiate da armatori occidentali, poiché i carichi (ed i possibili danni) andranno assicurati prevalentemente in occidente, armatori ed assicuratori non potranno noleggiare ed assicurare se non con la certezza che il carico verrà venduto sotto i 60 dollari al barile.
Che un meccanismo del genere possa davvero funzionare è assai dubbio, ma quel fantasioso dispositivo sanzionatorio se da un lato mostra la forza dell’occidente (le navi e gli assicuratori stanno in larga misura da quella parte), dall’altro ne evidenzia invece la debolezza. Perché mettere un tetto al prezzo (price cap) e non un divieto tout-court? Il fatto è che, esattamente come per il gas, si vuol colpire l’economia russa ma non si può rinunciare del tutto al petrolio che da lì proviene.
Una contraddizione foriera di tante mosse, da ambedue i lati della barricata. Un dilemma così sintetizzato da Sissi Bellomo sul Sole 24 Ore del 3 dicembre:
«Lunedì scatta il divieto di prestare qualunque servizio all’export di barili russi: misura di cui persino gli Usa temono gli effetti collaterali, tanto da aver spinto la Ue a limitarla ad un periodo di 90 giorni e ad affiancare il meccanismo del price cap, sperando di colpire le finanze di Mosca evitando però di precuderle l’accesso al mercato. Senza i barili russi la domanda globale resterebbe insoddisfatta ed i prezzi si infiammerebbero. Il punto è che ci sono alte probabilità che non si riesca a salvare capra e cavoli».
In fondo è lo stesso problema del gas, quello per cui si proclama ai quattro venti la volontà di chiudere ogni rubinetto dalla Russia, ma nella speranza che questo non avvenga del tutto almeno per un po’.
Ecco allora le pittoresche contraddizioni della guerra energetica scatenata dall’occidente. Vediamone alcuni aspetti.
Primo. Viste le stime sugli sconti decisi a Mosca (la cui entità è tuttavia segreta), il tetto fissato al prezzo del petrolio è addirittura superiore a quello attualmente praticato dalla Russia. Si dirà che obbligare ad una politica di forti sconti è già un risultato per il blocco occidentale. Vero, ma solo in parte. Mentre il prezzo attuale è comunque più alto di quello di un anno fa, anche l’export russo è superiore a quello del 2021. Ragione per cui, ben lungi dal diminuire, le entrate petrolifere russe sono addirittura aumentate nell’ultimo anno.
Secondo. Come noto, la stessa cosa è avvenuta per il gas. In questo caso i volumi arrivati nell’Unione Europea via gasdotto sono effettivamente calati. Una diminuzione però più che compensata dall’esplosione dei prezzi. Risultato: gli introiti di Gazprom sono certamente saliti e di molto, anche se – vista la segretezza dei contratti – un calcolo più preciso è impossibile.
Terzo. La vicenda del gas mostra quale sia la possibile arma di Mosca per quanto riguarda il petrolio. Se il tentativo di utilizzare un centinaio di “petroliere ombra” per aggirare le sanzioni dovesse fallire, la Russia vedrebbe sì calare i volumi delle proprie esportazioni, ma il prezzo del greggio andrebbe alle stelle, magari a 150 se non a 200 dollari al barile. Facile capire chi guadagnerebbe e chi perderebbe in un simile scenario.
Quarto. Come prevedibile, alla diminuzione del flusso dai gasdotti corrisponde un aumento del metano importato tramite liquefazione e rigassificazione. Ma qual è – dopo il Qatar – il maggior esportatore di Gnl (Gas naturale liquefatto) in Europa? Molti penseranno certamente agli Usa. E invece no, piccola sorpresa! Come ci rivela Bloomberg, nel 2022 il secondo posto tra gli esportatori verso i paesi dell’Ue è stato conquistato dalla terribile Russia, che ha così incassato dal Gnl 12,5 miliardi di euro, contro i 2,5 del 2021.
Quinto. L’Ue discute senza costrutto di un limite di prezzo al gas dal marzo scorso. Ad ottobre i giornaloni italiani hanno festeggiato il ritorno in patria del grande salvatore Draghi, reduce secondo loro da un’epica vittoria in materia di price cap. Una balla colossale che nessuno ammetterà mai. Le cronache di queste settimane ci raccontano infatti tutta un’altra storia. Il price cap sul gas non c’è, né forse ci sarà mai, ma la cosa più significativa è che se anche venisse applicato ciò avverrebbe ad una soglia (275 €/Mwh per almeno due settimane, più altre condizioni di contorno) che non è stata raggiunta neppure nel momento di picco della crisi di fine agosto… Un segno inconfutabile di quel che ci si aspetta per i primi mesi del 2023.
Tutti questi dati di fatto concorrono a dirci una sola cosa: non è possibile espellere la Russia dal mercato energetico mondiale senza con ciò provocare danni economici di portata colossale. Del resto, l’aumento dei prezzi dell’ultimo anno è lì a dimostrarcelo.
Tuttavia, possiamo esserne certi, la guerra energetica alla Russia continuerà senza sosta. Con essa continueranno, probabilmente inasprendosi, le conseguenze sulle bollette di luce e gas. Un aumento dei prezzi che è il vero motore della grande impennata inflattiva del 2022, quella che sta falcidiando come mai i salari e le pensioni degli italiani.
Chi intende battersi per fermare l’impoverimento delle classi popolari, ed il declino complessivo del nostro Paese, deve sapere che tutto ciò sarà possibile solo ponendo fine alla guerra contro la Russia. Scorciatoie non ce ne sono.