L’ennesima bolla del mercato liquido-finanziario è esplosa. La Gig Economy delle big tech, delle aziende-piattaforma fornitrici di servizi si adatta perfettamente al mercato globale della predazione delle multinazionali. I consumatori fanno il resto, perché su loro poggia in finale la strutturazione resiliente del mercato ed alle loro richieste risponde. Grazie a Dio, però, possiamo dirlo, il food delivery in Italia non ha attecchito.
Valeria Casolaro su L’Indipendente, il 25 agosto scriveva che «è scoppiata la bolla del cibo a domicilio… Dopo il boom registrato tra il 2020 e il 2021… [in piena pandemia] la crescita del settore è notevolmente rallentata nel 2022, registrando un +15% sul 2021 (molto lontano dal +87% del 2020 sul 2019)» e ciò era anche abbastanza prevedibile visto lo scoppio di tale mercato in virtù delle assurde restrizioni pandemiche, ma c’è un ‘altro motivo, infatti la giornalista sottolinea che «Secondo una recente indagine di Inapp, inoltre, nella ristorazione le commissioni per le consegne affidate alle piattaforme di food delivery superano il 20% per un’azienda su 3, mentre un’azienda su quattro non ha accesso alle informazioni sulla propria clientela…» E ciò dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che tali piattaforme non offrono nessun servizio ma predano e parassitano attività commerciali e consumatori, esattamente come le banche centrali, in mano ai privati, parassitano l’economia reale erogando il denaro a strozzo.
Le persone, grazie a Dio gradiscono ancora andare al ristorante, il modello americano del cibo a domicilio dovrà aspettare. Certo è che qui nonostante sia in calo, Il mercato del food delivery rende ancora, chi ci rimetterà non saranno le aziende, ma i lavoratori perchè come osserva giustamente Enrica Perrucchietti su Money.it «Molti lavoratori in questa industria vengono trattati come «collaboratori occasionali» o addirittura come partite IVA, privi di diritti e tutele lavorative, senza contare i rischi che i rider corrono pedalando avanti e indietro per le città. Le aziende di food delivery sfruttano il concetto di «lavoro autonomo» per evitare di fornire le adeguate tutele, come i sussidi di disoccupazione o l’accesso a coperture sanitarie. I lavoratori si ritrovano privi di reti di sicurezza, costretti a subire fluttuazioni improvvise nella domanda di lavoro senza alcuna garanzia di reddito».
Il discorso è semplice quanto cinico, nel sistema del mercato globale, digitale e dell’infosfera in cui tutto fluttua, nulla può essere stabile, ma c’è un aspetto che non si considera: le persone hanno, grazie a Dio, rifiutato un modello alienante e predatorio, proposto per provare ad imporre l’effetto piattaforma dell’economia di scala così da spolpare le attività di ristorazione fino ridurle a dark kitchen di loro proprietà esattamente come ha fatto UBER negli States con i trasporti e come ha fatto Amazon con le librerie, ma ciò che sfugge è “la finestra di opportunità” che si è venuta a creare.
Il mercato del delivery continuerà è un fatto certo eppure molti ristoratori abbandonano le piattaforme di tale servizio chi per il costo delle commissioni, chi per la mancanza di trasparenza. Due criteri che sicuramente una piattaforma messa su dagli stessi ristoratori e gestita dal basso, o ancor meglio pubblica, potrebbe evitare: le commissioni del 20%, la poca trasparenza nel trattamento dei dati ed un differente contratto per i lavoratori, i quali potrebbero essere assunti come “collaboratori” e tali servizi potrebbero venir erogati da una piattaforma pubblica (magari una multiservizi che supplisca il calo di un settore con l’esubero di un altro, per esempio) che garantisca reimpiego ed ammortizzatori sociali ai suoi dipendenti.
Il mercato liquido ed interinale proseguirà ed è un fatto certo ma non è detto che debba proseguire solo nell’interesse delle multinazionali. Per fare ciò non basterà che le istituzioni garantiscano contratti sociali e delimitino ed impongano una legislazione congrua alle grandi multinazionali, le quali possono tranquillamente beneficiare di enormi sgravi fiscali e favori governativi, come i contratti di collaborazione a partita IVA, ma come osserva la giornalista Perucchietti, nell’articolo summenzionato, sarà «cruciale promuovere l’educazione dei consumatori sulle implicazioni etiche e sociali delle loro scelte di acquisto». Perchè in fondo possiamo lamentarci tutto il dì delle ingiustizie sociali che subiamo, ma non possiamo prescindere dall’ammettere che siamo noi con la nostra adesione a tale sistema molto spesso a crearle o almeno a mantenerle.