Il 24 maggio 1915 è una data fatidica per il popolo italiano. Talvolta vorremmo essere sollevati dal fardello di una serie di date ingombranti, pulsanti ricordi dolorosi, date che ti obbligano con gesto ruvido a levare il cappello in segno di rispetto, date che vorresti scansare, fare finta di non conoscere, come si fa, fermi al semaforo, con una vecchia conoscenza poco gradita.
Il nostro pensiero va al drammaturgo tedesco Bertolt Brecht e alla sua celebre frase “Beato quel paese che non ha bisogno di eroi”.
Ecco, sarebbe bello se il nostro calendario fosse così, fresco e pulito come una camicia bianca appena lavata, pieno di giorni normalmente ricchi di fatiche e di promesse, ma non di ricordi luttuosi.
Il lettore ci scuserà questo preambolo, forse un poco idealistico e sessantottino, alla Gianni Rodari, ma proprio non ce la sentiamo di celebrare i fasti della partecipazione italiana alla Prima Guerra Mondiale.
Che è quello che stanno facendo, in questi giorni, alcune realtà politiche del sovranismo, attraverso discorsi e manifestazioni pubbliche. Le radiose giornate di maggio, furono le ultime giornate di libertà per molti giovani italiani, mandati a morire nelle trincee, una guerra che aveva poco o nulla di romantico e di risorgimentale, ma significava malattia, fango, amputazione degli arti, alienazione mentale.
Per capire meglio quanto avvenne in quelle convulse giornate di maggio occorre tornare indietro di diversi decenni. Il Risorgimento italiano si concluse, nel biennio 1860-1861, con la famosa frase di Giuseppe Garibaldi a Teano, quell’”Obbedisco” rivolto a Vittorio Emanuele II, che, di fatto, sancì la nascita di uno stato unitario fortemente connotato in senso conservatore, sprezzante verso i bisogni e i diritti del popolo.
Inutile chiedersi, se le cose avrebbero potuto andare diversamente, è giusto ricordare che il periodo storico che copre i decenni centrali dell’ottocento italiano fu solcato da fermenti di giustizia sociale, ben rappresentati dalla figura di Giuseppe Mazzini, che non seppero però coinvolgere grandi masse dei ceti più umili, lasciando così che l’unità italiana fosse orchestrata e divenisse appannaggio della dinastia dei Savoia, fra le più reazionarie d’Europa.
Più ci avvicinava alla fine del diciannovesimo secolo, e più l’afflato di liberazione dei popoli europei, ammantato di romanticismo liberale, mutava la propria identità, e si trasformava in un nazionalismo muscolare e ostile alla libertà dei paesi vicini, incline ad espandere i confini della propria nazione con la forza, e irrispettoso della democrazia sostanziale al proprio interno.
Fin dal suo apparire, negli anni ’80 del diciannovesimo secolo, il nazionalismo intende impersonare lo slancio per la costruzione di una nuova, più grande Italia che non poteva languire e spegnersi nella politica del “piede di casa”. Questo l’intendimento del romanziere e saggista Alfredo Oriani, che nel romanzo Fino a Dogali (1889) indicava nell’impresa africana il modo di continuare l’impresa risorgimentale.
L’anno della sconfitta di Adua (1896), nella prima guerra d’Africa, viene comunemente indicato come il punto di partenza del nazionalismo italiano.
Nel primo decennio del Novecento il nazionalismo si affida a due personalità: il trentino Scipio Sighele e il toscano Enrico Corradini. Quest’ultimo vedeva la continuazione della tradizione risorgimentale nel rovesciamento in “sacro egoismo” della sua originaria motivazione solidaristica e federalistica, mentre Sighele vedeva nel nazionalismo l’aggiornamento dello stato unitario attraverso la correzione dell’insufficienza dei suoi istituti, e soprattutto dei suoi obiettivi, per opera di una classe politica più colta, più consapevole e più responsabile.
La crisi bosniaca del 1908 orientò contro l’impero austro-ungarico i nazionalisti che prima di allora erano stati tra i più incrollabili sostenitori della Triplice Alleanza.
Si mette in luce in questi anni Luigi Federzoni, che diverrà poi uno dei gerarchi fascisti e che in questi anni scrive insieme a Corradini sul “Resto del Carlino”.
Proprio alla fine del primo decennio del ‘900 Corradini decide di portare il nazionalismo dal terreno artistico-culturale a quello ideologico-politico.
Il I Congresso del nazionalismo italiano si svolse a Firenze dal 3 al 5 ottobre 1910. L’impostazione parve a molti sorprendente per eccesso di simmetria: il nazionalismo era per la nazione quello che il socialismo era per la classe operaia, e se per quest’ultima valeva la lotta di classe, per il nazionalismo valeva la lotta fra le nazioni. Ciò comportava anche la loro reciproca incompatibilità: se il socialismo ammetteva la lotta interna oltre lo stesso limite della guerra civile, ma non ammetteva la guerra fra popoli, il nazionalismo ammetteva la lotta esterna oltre il limite della guerra generalizzata, ma non ammetteva la guerra interna.
Nacque così l’Associazione Nazionalistica Italiana (ANI). All’interno dell’associazione prevalse così il nazionalismo propriamente detto, ormai lontano dagli ideali libertari e solidaristici del Risorgimento e fondato sulla concezione astratta di Nazione, intesa retoricamente come un assoluto e non come un composto organico e dialettico delle varie e concrete forze morali, sociali, politiche ed economiche che convivono nell’ambito di un popolo e di un paese.
La psicologia del nazionalista è fatta perciò di dogmatismo intollerante, ed egli si ritiene unico possessore di tutti i valori politici e morali. Il nazionalismo accaparra e monopolizza il sentimento nazionale, l’amore di patria, l’attaccamento alla nazione. Già nel 1912, Leonida Bissolati diceva che il “nazionalismo è la forza reazionaria la quale approfitta del sentimento nazionale per i suoi propri fini”.
Nei fatti il nazionalismo rappresenta dei precisi interessi di classe ben precisi, attraverso una politica estera imperialistica che consenta un soffocamento ed anche un soffocamento delle rivendicazioni interne delle classi prementi dal basso.
Il nazionalismo (e, più tardi, il fascismo) aveva il suo esercito nella piccola e media borghesia patriottarda; ma i generali di quell’esercito erano i grandi capitalisti industriali ed agrari. Secondo Papini il programma del nazionalismo “Risvegliare la classe borghese, per mezzo dell’aristocrazia, per condurla contro la democrazia socialista o semisocialista”. Da qui l’opposizione inconciliabile che contrappone il nazionalismo al liberalismo, alla democrazia e al socialismo.
Il Corradini giunse ad affermare nel pensiero e nell’azione che il Nazionalismo italiano fu sempre antiliberale, antidemocratico, antiparlamentare, antimassonico” e ancora “Molti persistono a ritenere che il nazionalismo sia lo stesso di buon italiano … il nazionalismo è qualcosa di diverso dal patriottismo. E’ anzi, sotto un certo aspetto, l’opposto”.
I temi del nazionalismo sono l’esaltazione del sangue e della guerra come grande rigeneratrice morale dell’umanità; della violenza come scuola di coraggio; dell’obbedienza cieca nella quale misticamente s’annega la personalità individuale; dell’oligarchia e della dittatura, come sistemi ideali di governo, che non tollera soste o lentezze o controlli ritardatari e impaccianti; della libertà concreta della nazione potente contrapposta a quella astratta degli individui; della volontà di potenza che una nazione riversa al di fuori di se stessa in un espansionismo irresistibile e mai limitabile.
Inoltre il nazionalismo intendeva richiamare ed esaltare il sentimento di Roma e dell’Impero, di potenziare l’autorità dello Stato opponendosi all’”azione disgregatrice dei partiti” e combattendo socialismo, democrazia e parlamentarismo; di sollevare il prestigio della monarchia e patrocinare una politica d’alleanza fra Stato e Chiesa.
In sintesi, questo fu il percorso, politico e culturale, del nazionalismo italiano, negli anni della belle epoque, i primi quindici anni del Novecento. In questo arco di tempo, il nazionalismo fu un filone politico-culturale che non seppe attecchire a livello politico-elettorale. In compenso, giocò un ruolo tutt’altro che secondario nell’influenzare pesantemente la classe politica italiana, che si trovò forzata a votare a favore della discesa in guerra del nostro paese, al fianco di Francia e Inghilterra e contro gli imperi centrali di Prussia e dell’Austria-Ungheria.
E arriviamo così a parlare di quel mese di maggio del 1915, a quelle “radiose giornate di maggio” che rappresentarono uno spartiacque per il destino di un’intera nazione. Come afferma Antonio Gibelli nel suo volume “La Grande Guerra degli italiani:
«Le radiose giornate sono divenute così un simbolo ambivalente: manifestazione vibrante di orgoglio patriottico e promessa per il riscatto nazionale secondo gli interventisti democratici e i loro epigoni, emergenza delle forze più vive della nuova Italia contro l’inerzia dei vecchi equilibri secondo l’ottica dei nazionalisti e poi dei fascisti, conseguenza di una scelta eversiva di impronta reazionaria e presupposto della nefasta vittoria delle destre dal punto di vista della storiografia di ispirazione antifascista».
In quei giorni, il governo Salandra era stato messo in minoranza dal Parlamento, e secondo la prassi, avrebbe dovuto dimettersi e lasciare spazio a nuove soluzioni governative, ma ormai l’establishment italiano aveva, da diversi mesi, siglato accordi segreti con Francia e Inghilterra. Inoltre, l’arrivo di Giolitti nella capitale, politico di lungo corso e favorevole alla neutralità italiana, veniva vissuto come un incubo dagli ambienti di corte e dall’alta borghesia che già pregustava gli affari derivanti dalle commesse di guerra. Pertanto si rese necessario permettere che alcuni, particolari settori della popolazione italiana, prevalentemente giovani universitari ed elementi della piccola borghesia ansiosi di menar le mani, scendessero in piazza a chiedere a gran voce che l’Italia partecipasse al conflitto mondiale, già in corso in quel momento da quasi un anno.
Così migliaia di persone, da Nord a Sud, diedero inizio alle dimostrazioni, che non di rado sfociarono in atti di teppismo. In alcuni casi vi furono contro-manifestazioni, ad esempio a Prato, si arrivò addirittura ad una “caccia agli studenti” che reclamavano la guerra. Teatro di scontri anche più furiosi fu Roma, quasi a prefigurare gli scontri degli anni successivi alla stessa guerra.
Come continua ancora Gibelli «A chiudere il cerchio intervenne a questo punto l’iniziativa della Corona. Anziché prendere atto dell’orientamento della maggioranza parlamentare e incaricare Giolitti di formare il nuovo governo, il re diede nuovamente l’incarico a Salandra. Era una sfida aperta al Parlamento, che si saldava con le pressioni eversive della piazza .. il 20 maggio il parlamento riunito ratificava la decisione dell’intervento. Il 24 l’Italia entrava in guerra. L’insieme dei fattori che avevano portato alla decisione, e soprattutto quest’ultimo, concitato finale, offrono molti argomenti alla tesi del “colpo di stato”, inteso come violazione delle regole costituzionali o almeno della volontà parlamentare da parte della monarchia».
Di fronte ad una svolta autoritaria, quale fu la risposta del socialismo italiano ed europeo? Come scrisse Leo Valiani «il movimento operaio socialista si rivelava impotente, in tutti i paesi belligeranti, ad opporre una qualsiasi azione effettiva – anche di mera protesta – alle misure di mobilitazione decretate dai governi, e anzi o le aveva già approvate, attraverso i suoi giornali e i suoi deputati, o si disponeva ad approvarle».
Il grosso del movimento socialista internazionale aveva sposato la tesi della “difesa nazionale” e si schierava sostanzialmente su posizioni “patriottiche”.
La neutralità assoluta era una formula che, scoppiata la guerra, non poteva non mostrare la sua provvisorietà, la sua astrattezza: l’aggressione tedesca al Belgio, grazie anche all’abile propaganda franco-inglese, turbò tutte le coscienze, anche le più fredde.
Pur avversando la guerra in sé, le simpatie popolari andarono subito agli aggrediti, alle democrazie e l’odio andò al militarismo, all’imperialismo tedesco dal quale l’Europa doveva difendersi. Il “Punto di vista” del proletariato cominciò così a perdere la sua autonomia e ad essere influenzato da nuove considerazioni che, pur diversificandosi da quelle della borghesia, ne subivano in parte, l’influenza.
La strategia leninista, che consisteva nel trasformare la guerra tra nazioni imperialiste in guerra di classe, possedeva in quel momento storico una sua innegabile validità, e non esistevano alternative altrettanto efficaci.
L’avvento della guerra significava la transizione epocale, da un’epoca di secolare pace in Europa, ad una guerra civile europea, che sarebbe durata per trent’anni e avrebbe causato un numero enorme di vittime, e avrebbe portato all’imbarbarimento, all’incattivirsi della vita civile, politica e istituzionale. Non aveva alcun senso illudersi che, una volta terminato il conflitto, la situazione potesse tornare tranquillamente al passato, passato in cui il Partito Socialista italiano aveva goduto di un numero crescente di consensi elettorali, aveva conquistato l’amministrazione di diverse città italiane, si era radicato sui territori della nazione grazie ad una fitta rete di cooperative, leghe, camere del lavoro. Aveva creduto, così facendo, di poter procedere al raggiungimento di una società socialista in maniera graduale, ma le elites politiche ed economiche erano ormai decise a muoversi in senso reazionario e anti-popolare.
Per la sinistra moderata e interventista (i repubblicani) il posto dell’Italia non poteva che essere a fianco della Francia e dell’Inghilterra. La guerra contro l’Austria avrebbe compiuto l’unità d’Italia, riunito alla patria madre gli irredenti, significato la ripresa dell’iniziativa repubblicana contro la politica di amicizia e di alleanza con Vienna imposta alla monarchia con la Triplice. Per i socialisti riformisti la Guerra, se avesse condotto al dissolvimento dell’Austria e alla distruzione dell’impero germanico, avrebbe potuto significare, oltre che il compimento dell’unità italiana, l’inizio di una nuova era per il mondo.
Anche in questo frangente è evidente come parte non piccola del PSI non avesse letto con sufficiente acume i testi marxiani e fosse incline a magnificare le virtù delle democrazie occidentali (Francia, Inghilterra) dimenticando che queste due nazioni opprimevano tanta parte del mondo con i loro imperi coloniali, e anche al proprio interno, vessavano le classi popolari in maniera non dissimile da quanto accadeva nei due imperi centrali, dove probabilmente, le condizioni dei ceti popolari erano più dignitose.
Lasciarsi andare a manifestazioni di simpatia per uno dei due contendenti significò dunque, lasciarsi impigliare in uno schema che faceva il gioco della grande borghesia che faceva affari con la produzione di armi, e più in generale, con l’economia di guerra e le sue commesse milionarie per le grandi imprese. Questa fu una delle grandi pecche del socialismo italiano, l’altra fu quelle di rinnegare la guerra, di disprezzarla nella maniera più assoluta, di vederla come il male assoluto, evitando volutamente di contestualizzarne alcuni aspetti, di analizzarne più freddamente gli attori in campo.
Più nello specifico, il Partito Socialista si rifiutò di considerare la massa dei combattenti italiani se non in modo sprezzante e iroso, non volle considerarli in altro modo che come degli infetti, contaminati dal virus malsano della guerra, quasi che la guerra fosse colpa loro, e non delle elitès militari e politiche che l’avevano fortemente causata.
Intendiamoci, come detto in precedenza, una parte non secondaria della giovane borghesia, fatta di universitari, aveva preso alle radiose giornate di maggio, ma è anche vero che avevano pagato duramente sulla propria pelle quella scelta scellerata. Una scelta più meditata, e astuta, poteva fondarsi sul dialogo con la massa dei reduci, facendo vedere agli ex-combattenti come le loro fatiche di guerra, i loro sacrifici non fossero valsi a nulla, se non ad ingrassare i cosiddetti pescicani, gli approfittatori.
Il socialismo italiano, si schierò invece, su una posizione di intransigenza che incluse, invece, anche le vittime di quella guerra, i soldati, che finirono così per passare in buona parte, dalla parte della reazione. A tale riguardo, Angelo Tasca parlò di “decisione bestiale”, che causò il distacco grave e fatale tra il Partito Socialista e la generazione del fronte”.
Come scrisse Antonio Gramsci in Passato e presente, «Era evidente che la guerra, con l’enorme sconvolgimento economico e psicologico che aveva determinato fra piccoli intellettuali e i piccoli borghesi, avrebbe radicalizzato questi strati. Il partito se li rese nemici gratis, invece di renderseli alleati, cioè li ributtò verso la classe dominante». In altro scritto parlò di «affermazione demagogica, che servì a falsificare la posizione politica del partito che non doveva fare dell’antinterventismo il perno della sua attività, e a scatenare odi e persecuzioni personali contro determinate categorie piccolo-borghesi».
Fu proprio in questo momento che il quadro politico si spaccò temporaneamente in quattro diversi segmenti, e non più, sul tradizionale asse destra/sinistra, borghesia/proletariato. Esisteva una sinistra pacifista e contraria alla guerra, identificabile nel partito Socialista, e una sinistra interventista; esisteva poi un ceto parlamentare conservatore contrario alla guerra, che aveva il suo campione in Giolitti, e un ceto conservatore interventista, i cui principali esponenti erano Salandra, e che come detto, ebbe poi la meglio grazie all’aiuto della Corona, del Re Vittorio Emanuele III.
Su posizioni simili a quelle dei repubblicani e dei socialisti riformisti erano i radicali, la massoneria, nonché alcuni gruppi di opinione più vivi quali quelli facenti capo a “Lacerba” alla “Voce” e soprattutto all”Unità”, la rivista del Salvemini, che scriveva “per resistere al nazionalismo – ammoniva – bisogna mettersi sul terreno dei concreti interessi nazionali, e non chiudersi nel castello eburneo dei sentimentalismi buoni per tutti i tempi e per tutti i luoghi”. Bisogna – scriveva ancora Salvemini – che questa guerra uccida la guerra.
Questa teoria era alquanto diffusa nella sinistra interventista, e venne totalmente disattesa nell’aspra e incattivita realtà post-bellica, dove gli animi esacerbati erano tutt’altro che ben disposti verso la pace, e i nazionalismi si erano se mai accentuati, in Italia come nel resto d’Europa.
Infatti, la guerra mondiale aveva profondamente mutato la società italiana: secondo le cifre ufficiali, tra il 1915 e il 1918 furono poco meno di 6 milioni ( 5 milioni e 900mila) i soldati chiamati alle armi, vale a dire intorno a un sesto della popolazione.
Se si considera che le famiglie italiane censite al 1911 erano sette milioni e settecentomila (per una media di 4,6 persone a famiglia) immaginando che i reclutati si distribuissero uniformemente si può affermare che i l’80% delle famiglie fu coinvolto direttamente nella guerra, con il coinvolgimento di uno dei membri. Dei sei milioni di mobilitati, oltre settecentomila vennero esonerati o dispensati, circa 150mila vennero arruolati in marina e 166mila vennero assegnati agli stabilimenti industriali per la produzione di guerra. L’esercito direttamente impegnato nelle produzioni di guerra comprese nell’arco di tutto il conflitto, circa 4 milioni e 250mila uomini.
Secondo alcuni i lavoratori agricoli fornirono due milioni e seicentomila uomini, pari al 45% del totale. I morti in guerra furono vicini ai 600.mila, a cui vanno aggiunti 100mila morti in prigionia. Su scala nazionale si calcola che ogni 1000 uomini chiamati alle armi 105 non tornarono più.
Al di là dei freddi numeri, che spesso anestetizzano chi li legge, perché difficilmente traducibili in termini esistenziali, occorre ancora una volta fare riferimento a persone in carne e ossa, che non poterono condurre la propria esistenza con il suo corollario di affetti e di gioie.
Particolarmente significativa, a nostro avviso, è la testimonianza epistolare di un giovane, ardente nazionalista, Gualtiero Castellini, che si era speso per sollecitare la partecipazione italiana al conflitto. Ben presto le sue speranze di gloria andarono amaramente deluse, e vennero sostituite dalla certezza di far parte di qualcosa di ben diverso da una romantica tenzone fra cavalieri, come probabilmente aveva pensato.
Già nei primissimi mesi di guerra, agosto-settembre del 1915, in lui si fa strada la consapevolezza: «La guerra moderna è questione di pazienze e di estensione del tempo, nello spazio, negli sforzi. Dal Risorgimento in poi quale immenso mutamento. Ci penso spesso: allora grandi risultati – positivi o negativi – in pochi mesi».
In un’altra lettera, sempre indirizzata ai familiari, Castellini riprende più estesamente il concetto: “tutto il Risorgimento dal ’48 al ’70 ci ha costato 7000 morti (e quanti eroi si ricordano fra quelli!) mentre tre mesi di guerra ci hanno già dato sicuramente tre volte quella cifra (e quanti se la ricordano?).
Emerge da questa, come da altre testimonianze, tutta la peculiarità della guerra novecentesca, il carattere anonimo e massificato della morte.
Questo fu la prima guerra mondiale, fu la decimazione dei soldati italiani fuggiti dalla disfatta di Caporetto, come raccontato vividamente da Ernest Hemingway nel suo romanzo, parzialmente autobiografico, Addio alle armi.
Di là da venire, era la guerra popolare, la Resistenza vittoriosa al nazifascismo nel biennio 1943-1945, che citiamo in positivo, perché crediamo che un pacifismo assoluto non possa, purtroppo, avere luogo, e un popolo, debba, in determinate momenti della Storia, prendere le armi e difendersi.
Per tornare al primo conflitto mondiale, rimane il nostro giudizio, che preferiamo esprimere con le parole di Eugenio Montale “Cotesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”:
La prossima guerra mondiale (la terza o la quarta, dipende da come si conta la guerra detta fredda) e’ vicina, vicinissima, la vedo arrivare da tanti anni … e tutto questo che stiamo subendo e’ solo la preparazione allo stato di guerra … altro che stato di concessione: stato di carne da cannone … come prima, piu’ di prima …