La presente riflessione nasce dalla personale esigenza di affrontare alcuni nodi teorici attinenti all’approccio economico e alla lettura della realtà degli ultimi decenni.
Le tremende contingenze che hanno assediato la nostra quotidianità negli ultimi anni, dall’emergenza pandemica all’escalation bellica in cui è stato acriticamente trascinato l’occidente, hanno di fatto messo in secondo piano il perseguimento di una teoria che inquadri la realtà in maniera razionale, descrivendone la genesi e, possibilmente, individui delle alternative al modello socio-economico attuale.
Il fatto che il parametro dell’inflazione sia assurto a pietra angolare dei trattati europei, ci impone di partire da lì: non si tratta di un semplice richiamo al necessario controllo dei prezzi ma di un’autentica ossessione che ha mantenuto il tasso d’inflazione prossimo allo zero per diversi anni, prima che la dichiarata emergenza pandemica, prima, e la guerra, poi, introducessero elementi esogeni al modello che hanno determinato delle perturbazioni transitorie all’approccio economico tuttora imperante.
Partiamo da una constatazione semplice, che anche i non addetti ai lavori possono ben comprendere: di per se l’aumento della domanda di beni e servizi induce un rialzo dei prezzi. Sarà capitato a tutti di notare come i prezzi dei condizionatori aumentino durante il periodo estivo, quando aumenta la domanda. Si potrebbero fare molti esempi, ognuno potrà trovare spunti nella propria esperienza personale. In generale, l’aumento della domanda di beni e servizi determina un aumento fisiologico del livello medio dei prezzi, che va distinto dall’inflazione indotta da shock esterni. Quest’ultimo è il caso determinato dall’aumento repentino dei costi delle materie prime per produrre energia che abbiamo registrato dallo scoppio della guerra, e che si è riverberato a cascata su tutti gli altri prezzi.
Lasciamo per ora da parte l’inflazione indotta da shock estranei alla domanda, per concentrarci sulla prima ipotesi che poi è quella su cui l’azione dell’Unione Europea si è incentrata negli ultimi trent’anni e che si è tradotta nella ben nota formula dell’austerità.
Quindi, il diktat imposto dai trattati è consistito nel limitare la domanda interna dei paesi membri ad ogni costo, sacrificando ogni altro obiettivo di politica economica, in primis quello della piena occupazione. E’ noto che l’Unione Europea impone tassi di disoccupazione cosiddetta strutturale ai paesi membri, che i governi hanno il compito di perseguire annualmente e che, per l’Italia, si aggirava intorno al 10% fino al 2018.
Anche tutti gli altri vincoli, diretti o indiretti, imposti dai trattati sono legati a filo doppio alla spasmodica ricerca del contenimento e, possibilmente, dell’annullamento dell’inflazione. Il pareggio tendenziale di bilancio (tradotto in Italia in norma costituzionale dal governo Monti), collegato ai ben noti parametri sul contenimento di deficit e debito in rapporto al Pil, mira alla diminuzione della liquidità del sistema e all’inevitabile conseguente raffreddamento del tasso di inflazione. Tutto ciò si porta dietro la progressiva contrazione dei servizi pubblici, dalla sanità, alla scuola, alla previdenza e spiega il decremento dell’azione pubblica che si è registrato, seppur con diversa gradazione, in tutti paesi che vantavano una forte tradizione di interventismo pubblico a scopo riequilibratore delle disparità sociali.
Giusto a titolo informativo, in Italia le istituzioni si muovono in mezzo una tale selva di parametri, direttamente discendenti dalla necessità di contenere l’indebitamento, da fare impallidire il dirigismo sovietico, con la differenza sostanziale che in questo caso lo scopo della normativa è quello di mantenere l’intervento pubblico ad un livello minimale; tutti gli amministratori della sanità pubblica sanno bene, ad esempio, che il vincolo alle assunzioni è ancora fermo al monte salari dal 2004 diminuito del 1,4%. Ma si potrebbero fare un’infinità di esempi.
E’ ora necessario capire perché il controllo dell’inflazione ha assunto quest’importanza all’interno dei trattati.
Nell’ultimo trentennio, ci hanno raccontato che essa costituiva una tassa implicita per tutti, un’autentica piaga in grado di funestare trasversalmente la società, tanto i ceti ricchi, quanto quelli meno abbienti.
Ma si rifletta un attimo: se è vero che, per limitare il rialzo dei prezzi, si deve accettare la demolizione del sistema sanitario, la devastazione della scuola pubblica e della previdenza, l’eliminazione dell’indicizzazione dei salari (la soppressione della scala mobile risale al lontano 1983, si tenga presente che la transizione dalle socialdemocrazie ha avuto una lunga gestazione), l’introduzione di tassi di disoccupazione strutturali, si comprende che il modello socio-economico che ne consegue è fortemente desiderabile per alcuni e profondamente svantaggioso per altri.
Detto in altri termini, io ritengo che il capitale abbia pagato per decenni, appunto in termini di erosione ad opera dell’inflazione, tutte quelle che erano le conquiste sociali del dopoguerra; la sanità pubblica universale, l’adeguamento dei salari, la scolarizzazione, l’interventismo pubblico determinano una spinta naturale, attraverso meccanismi direttamente o indirettamente redistributivi, all’innalzamento dei redditi, alla spesa e quindi all’inflazione.
Credo che, dopo la caduta del muro, sia venuta a mancare l’unica ragione per cui il capitale ha tollerato questo meccanismo redistributivo, all’interno del quale, a certe condizioni, il tasso d’inflazione interna (ripeto, quella che origina in maniera fisiologica dalla domanda) può essere considerato il misuratore implicito della redistribuzione in atto.
Il fatto che il tasso d’inflazione tendenzialmente pari a zero sia considerato auspicabile per l’economia, la dice lunga sull’approccio ideologicamente orientato dell’attuale Europa; e il fatto ulteriore che le masse si bevano questa panzana e che la sedicente sinistra l’abbia accettata acriticamente è indicativo del livello di egemonia culturale in senso gramsciano raggiunto dalle elites finanziarie dominanti.
Che l’inflazione in sé costituisca un problema assillante per il capitale, l’aveva intuito Lenin, quando disse che a spazzar via il capitalismo ci avrebbe pensato l’inflazione.
Da quanto anticipato, si comprende che qualsiasi proposta seria alternativa al modello socio-economico dominante non può prescindere dalla messa in discussione di un quadro macro economico che antepone il controllo dell’inflazione all’obiettivo di piena occupazione e più in generale di perseguimento di giustizia sociale: ma bisogna essere consapevoli che il sovvertimento dell’ordine economico che antepone la stabilità di prezzi e tassi ad obiettivi di equità sociale, lungi dall’introdurre un semplice aggiustamento al capitalismo, è in grado di minarne i presupposti fondamentali, quali la massimizzazione del profitto e l’accumulazione del capitale. Difficilmente le elites dominanti accetteranno addomesticamenti di tale portata senza avere di fronte masse organizzate e consapevoli del loro ruolo e della loro reale condizione di attuale subalternità.
* Fronte del Dissenso – Toscana